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Il prezzo ambientale dell’hamburger

allevamenti intensivi
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La produzione globale di cibo comporti l’emissione di oltre 17 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno. E la maggior parte sono a carico degli allevamenti intensivi.

Il settore agricoltura è responsabile, in Italia, del 7% delle emissioni di gas serra, con circa 30 milioni di tonnellate di CO2 prodotte all’anno. La maggior parte di queste deriva dagli allevamenti (l’80%), in particolare quello dei bovini (il 70%) e dei suini (oltre il 10%). Il resto è causato dall’utilizzo di fertilizzanti sintetici. La produzione di ammoniaca, uno dei principali precursori dell’inquinamento da particolato, dal 1990 è diminuita del 23% ma il settore continua ad essere responsabile della produzione del 90% delle emissioni nazionali. Sono gli ultimi dati resi disponibili da Ispra. Ma in questo quadro, secondo la Rete legalità per il clima, un network di avvocati e giuristi in prima linea nella battaglia contro il cambiamento climatico, le informazioni in tema di emissioni inquinanti e climalteranti fornite dalle multinazionali attive nell’allevamento intensivo non sono chiare. Per questo, in rappresentanza di 38 associazioni, la Rete ha presentato istanza al Punto di contatto nazionale dell’Ocse, l’organo del Governo italiano che si occupa di verificare che le linee guida Ocse siano applicate nel nostro Paese, per verificare che le multinazionali stiano effettivamente seguendo le indicazioni date alle corporation. Soprattutto sulle emissioni di metano, che gli allevamenti producono in gran quantità a causa dei processi di fermentazione enterica e delle deiezioni animali. E la comunità scientifica concorda sul fatto che, se vogliamo sperare di centrare i target stabiliti dall’Accordo di Parigi (contenimento dell’aumento delle temperature entro gli 1,5°C) è necessario e urgente tagliare le emissioni climalteranti.

L’impatto della produzione di cibo

Allevamento e agricoltura intensivi sollevano il grande problema della perdita degli ecosistemi naturali, che vengono eliminati e sostituiti con quelli artificiali. Questi nuovi ecosistemi, ridotti in biodiversità e semplificati, vanno poi difesi dall’azione della natura che tenta di riappropriarsene ricorrendo all’aratura, all’uso di pesticidi ed erbicidi. E poi di fertilizzanti per ripristinare la produttività del suolo dopo i raccolti. Tutto questo con grande dispendio di energia, ricavata per lo più da fonti fossili. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista Nature Food e condotto da un gruppo di ricercatori internazionali coordinato dall’Università dell’Illinois, a cui partecipa anche la divisione statistica della FAO di Roma, si calcola in oltre 17 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno l’impatto ambientale della produzione di cibo a livello globale. Con il 29% a carico della produzione di cibi di origine vegetale e il 57% a carico di quelli animali. Inoltre, secondo WWF, in Italia si usano 114.000 tonnellate all’anno di pesticidi, che rappresentano circa 400 sostanze diverse. E l’inquinamento da pesticidi nell’acqua secondo Ispra, che nel 2019 registrava superamenti dei limiti di legge del 25% per le acque superficiali e del 5% in quelle sotterranee, è sottostimato a causa delle difficoltà tecniche e metodologiche dei monitoraggi e del numero di campionamenti realizzati. In tutto questo non c’è ancora un nuovo Piano di azione nazionale per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, dopo la scadenza di quello precedente nel febbraio del 2019. E secondo WWF, il Piano nazionale con cui Governo e Regioni dovrebbero programmare l’utilizzo dei fondi della PAC è inadeguato a sostenere una vera transizione ecologica della nostra agricoltura.

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Redazione

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