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Cosa sono i Brownfield e quali le loro potenzialità

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Con il termine brownfield si definiscono siti ex industriali inquinati collocati in ambito urbano o periurbano, con grandi potenzialità di rigenerazione.

Partiamo dalla definizione. Uno studio dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (APAT) e dell’Università Iuav di Venezia di qualche anno fa definisce i brownfield come “siti inquinati nei quali gli interventi di riutilizzo o trasformazione d’uso, valorizzandone le caratteristiche e collocazione geografica, sono in grado di produrre benefici economici uguali o superiori ai costi relativi alle opere di trasformazione e alle opere di bonifica o messa in sicurezza. Si tratta, spesso, di siti inquinati compresi in ambito urbano o di immediata periferia, già dotati di tutte le opere di urbanizzazione (luce, acqua, gas, rete fognaria ecc.) e prossimi a linee e raccordi di trasporto”. Parliamo quindi di aree degradate ma che, per la collocazione e l’infrastrutturazione presenti, a valle di operazioni di bonifica possono garantire importanti vantaggi sociali ed economici. Non c’è univocità nella definizione di questo tipo di siti. Una autorevole definizione europea è fornita dal progetto Clarinet2: “siti che sono stati interessati da precedenti usi; sono abbandonati o sottoutilizzati; hanno problemi di contaminazione reali o percepiti; si trovano principalmente in aree urbane sviluppate; richiedono un intervento di bonifica per riportarli ad un uso vantaggioso”. Come si vede, la definizione fornita dal progetto europeo enfatizza più gli aspetti problematici rispetto alle potenzialità. Punta invece proprio su queste ultime l’Agenzia dell’ambiente statunitense (EPA), che li definisce una “proprietà immobiliare, il cui sviluppo, riqualificazione o riutilizzo può essere complicato dalla presenza o potenziale presenza di una sostanza pericolosa, inquinanti o contaminanti”.

Quanti sono i brownfield

La variabilità delle definizioni di brownfield rende aleatoria la conta di questi siti. Scrive ancora l’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana (ARPAT): “le fonti disponibili sono piuttosto avare e imprecise, ed è possibile restituire solo le dimensioni di massima del fenomeno, qualche volta senza riuscire a distinguere fra siti contaminati e brownfield in senso stretto”. Negli Stati Uniti Una stima di massima indica almeno 450.000 brownfield. In Europa solo alcuni Paesi hanno avviato iniziative per valutarne l’ampiezza: in Germania si stima ad esempio che i brownfield occupino, approssimativamente, 128.000 ettari di territorio, nel Regno Unito 39.600 ettari, in Francia 20.000, in Olanda 10.000 ettari. In Italia siamo di fronte ad una estrema eterogeneità dei dati, che ne rende difficile il confronto e l’aggregazione. Per questo ARPAT ha condotto (ricordiamo che il documento di riferimento è del 2006) una ricognizione con un sondaggio rivolto alle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente e alle Regioni: i risultati di questa analisi hanno misurato in circa un migliaio i brownfield nazionali.

Alcuni casi di rigenerazione di brownfield

Posta la complessità di perimetrare questo tipo di siti inquinati, ci sono tuttavia esempi di rigenerazione realizzati con successo, come nel caso dell’ex-zuccherificio di Cesena in cui Comune, Cassa di Risparmio e Coop si sono fatti promotori del rinnovamento di quest’area di 23 ettari; oppure il progetto Pirelli-Bicocca a Milano, nel nord-est della città, al confine col Comune di Sesto San Giovanni, che rappresenta uno dei primi casi italiani di rigenerazione di aree ex industriali. L’area Ostiense-Marconi, a Roma, è un esempio di riqualificazione diffusa, perché ha interessato un insieme di aree degradate e non un’unica area contigua territorialmente; da ricordare infine l’intervento realizzato sull’area ex Fiat a Firenze Novoli, ex sito produttivo dell’azienda torinese, dove l’interesse immobiliare del proprietario si è coniugato con l’attenzione della Pubblica Amministrazione.

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