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Oltre Greta: 5 attivisti per il clima dal Sud del mondo da seguire durante COP30

Attivisti per il clima: giovani che partecipano a una manifestazione
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Per molti anni, il volto più riconoscibile dell’attivismo climatico globale è stato quello della svedese Greta Thunberg, la leader del movimento Fridays For Future. Mentre i negoziati si preparano per la cruciale COP30 brasiliana a Belém, nel cuore dell’Amazzonia, l’attenzione si sposta sempre più verso voci in prima linea contro la crisi climatica, che non risiedono in Europa. Si tratta degli attivisti per il clima provenienti dal Sud globale.

I nuovi leader del movimento Fridays for Future, che camminano nel solco tracciato da Greta, non portano solo lamentele. Spesso e volentieri, nelle loro parole si rintracciano vere e proprie proposte di giustizia sociale, razziale e di genere. Questi giovani, provenienti da Paesi poveri o in via di sviluppo, legano indissolubilmente la crisi climatica ai diritti umani e all’equità economica. Sono coloro i quali subiscono in modo sproporzionato gli impatti climatici, dalla siccità estrema ai tifoni, pur avendo contribuito soltanto in minima parte al riscaldamento globale, causato principalmente dalle economie agiate del Nord del mondo.

Figure come Vanessa Nakate, originaria dell’Uganda, o la brasiliana Txai Suruí, sono diventate interlocutori chiave per le istituzioni internazionali. Esse portano nei negoziati temi scottanti come la messa in pratica del fondo denominato Loss and Damage e la responsabilità storica dei paesi industrializzati nei confronti del surriscaldamento globale. Seguire questi leader durante COP30, e non solo, è fondamentale per capire la vera posta in gioco, all’infuori dei poco utili tecnicismi diplomatici.

La nuova ondata dell’attivismo: da protesta a proposta

L’attivismo per il clima non si limita più a scioperi e manifestazioni, al termine del 2025. Siamo lontani dal periodo nel quale le iniziative dei Fridays For Future erano semplicemente occasione di denuncia, come avveniva quando gli studenti scioperavano, rinunciando alle lezioni scolastiche per trovarsi in piazza a gridare il loro sdegno nei confronti dell’opera di autodistruzione avviata dall’essere umano a danno di sé stesso. Oggi quello dei FFF è un movimento politico e strategico, che richiede e propone un profondo ripensamento del sistema globale.

Il concetto di giustizia climatica spiegato semplicemente

Il principio di giustizia climatica afferma che il surriscaldamento non è solo un problema ambientale, bensì una rilevante questione etica e politica, presa sottogamba dai potenti. Si basa sulla constatazione che chi ha inquinato meno subisce i danni maggiori; mentre chi ha impattato di più ha beneficiato del modello di sviluppo insostenibile, e ora ne gode le ricchezze derivate. Questo concetto riprende il principio delle responsabilità comuni, ma differenziate, della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), trasformandolo in una richiesta di azioni concrete e incisive, che sono principalmente due:

  • finanza climatica. I Paesi ricchi devono finanziare la transizione e l’adattamento di quelli poveri, senza se o senza ma, consentendo loro di raggiungere un livello di ricchezza e dignità accettabile, invece di pretendere che abbandonino il modello di sviluppo industriale;
  • applicazione seria e metodica del Loss and Damage Fund, al fine di consentire il risarcimento dei danni causati dai sempre più frequenti eventi estremi, per i quali l’adattamento è ormai insufficiente.

Decolonizzare il dibattito: perché le voci dei nuovi attivisti per il clima sono cruciali

Per decenni, il dibattito climatico è stato dominato da una prospettiva eurocentrica. Questa si è storicamente focalizzata su emissioni pro capite e soluzioni tecnologiche che potessero essere intraprese dai più ricchi. Le voci del Sud globale sono però essenziali. Sono infatti in grado di testimoniare, in prima persona, l’impatto e la devastazione legati ai fenomeni climatici estremi. In aggiunta, sono custodi di pratiche di gestione del territorio intrinsecamente sostenibili. Pensiamo, ad esempio, ai popoli indigeni e alle comunità locali custodi di ecosistemi vitali, come quelle dell’Amazzonia, la regione che si prepara ad accogliere le delegazioni partecipanti a COP30.

Superare una visione eurocentrica, anacronistica e poco funzionale, significa accettare che le soluzioni non verranno solo dai laboratori occidentali. Anche la saggezza ancestrale e la lotta per i diritti umani, nelle foreste e lungo le coste, potranno e dovranno portare il loro contributo.

5 profili da conoscere e seguire prima, durante e dopo COP30

Tra le nuove voci che si fanno maggiormente udire, all’interno del plotone dei combattenti contro il surriscaldamento globale, troviamo 5 figure carismatiche che si stagliano più in alto delle altre. Di seguito, forniamo un identikit per ognuna di esse.

1. Vanessa Nakate, la voce della giustizia climatica e dell’energia per l’Africa

L’attivista ugandese è probabilmente la più nota tra i giovani impegnati in prima persona per il clima, dopo Greta Thunberg, che conosce personalmente. Nakate è fondatrice del movimento Rise Up nonché autrice del libro A Bigger Picture. La sua battaglia si concentra principalmente sulla finanza climatica e sulla povertà energetica. L’attivista evidenzia come i paesi africani, pur essendo i meno responsabili della crisi, dal momento che incidono soltanto per il 3% delle emissioni globali, ne subiscano gli effetti più devastanti, come siccità e inondazioni. La sua è una voce davvero potente contro il cosiddetto razzismo ambientale e l’invisibilità mediatica degli attivisti africani.

La richiesta principale che esternerà alla platea di COP30 sarà quella di spingere i Paesi ricchi a mantenere le promesse sulla finanza climatica. In particolare, solleciterà il rispetto dell’impegno di cedere 100 miliardi di dollari ai governi meno ricchi, per rilanciarne gli obiettivi di sviluppo sostenibile, oltre all’urgente (ri)definizione dell’obiettivo finanziario qualificato collettivo NCQG. Ambedue queste misure servono, tra le altre cose, a consentire l’adattamento e l’accesso all’energia pulita in Africa, in modo da evitare che si sia costretti a ricorrere ai combustibili fossili per uscire dalla povertà energetica, nel continente nero.

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2. Txai Suruì, la custode indigena dell’Amazzonia

La giovane leader del popolo indigeno Paiter Suruí, residente nello stato brasiliano della Rondônia, Txai, è diventata un simbolo della lotta contro la deforestazione in Amazzonia. È stata l’unica brasiliana indigena a parlare all’apertura della COP26 di Glasgow. Il suo messaggio unisce scienza e saggezza ancestrale, sostenendo che i diritti dei popoli indigeni e la protezione delle foreste siano inseparabili e vadano considerati una sola cosa.

Si potrebbe dire che Suruì giochi in casa a COP30, dal momento che il summit si terrà a poca distanza da dove vive. È dunque prevedibile che il suo ruolo sarà centrale. Ci si attende che spinga per un coinvolgimento diretto dei popoli indigeni nei negoziati, oltre che per meccanismi capaci di proteggere legalmente i loro territori di residenza, troppo spesso minacciati da minatori e taglialegna illegali.

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3. Elizabeth Wathuti, campionessa della riforestazione e dell’adattamento

Wathuti è un’attivista keniana, fondatrice della Green Generation Initiative per la riforestazione. È diventata famosa a livello globale per il suo discorso, emozionante e diretto, alla COP26. In quell’intervento, la giovane descriveva la sofferenza dei bambini affamati a causa della siccità e chiedeva ai leader mondiali di aprire i loro cuori. La sua organizzazione ha già piantato oltre 30.000 alberi in Kenya, concentrandosi sull’educazione ambientale nelle scuole come strumento per l’adattamento a un futuro minacciato dalla crisi climatica.

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La sua voce sarà, con ogni probabilità, fondamentale nelle discussioni sui fondi per l’adattamento e sul ruolo delle soluzioni basate sulla natura (NBS) come strumento per proteggere le comunità africane, combinando la conservazione con la sicurezza alimentare.

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4. Mitzi Jonelle Tan, l’attivista per il clima in prima linea contro i tifoni

Tan è portavoce internazionale di Youth Advocates for Climate Action Philippines (YACAP) e Fridays For Future. Vive in uno dei Paesi più colpiti al mondo da eventi climatici estremi, a cominciare da tifoni e inondazioni, e ne porta la testimonianza in maniera molto diretta e potente. La sua lotta si concentra sulla richiesta di un’uscita rapida, e totale, dai combustibili fossili, nonché sulla denuncia del colonialismo verde. Questo tema le sta particolarmente a cuore e più volte ha denunciato tale pratica, la quale sfrutta le risorse del Sud per agevolare la transizione del Nord.

La sua sarà sicuramente una delle voci più forti e intransigenti a Belém, sede di COP30, sul tema del Loss and Damage. La ragazza chiederà che il fondo venga finanziato, in maniera massiccia, senza parsimonia, e immediatamente, allo scopo di aiutare le Filippine e altre nazioni a ripartire, dopo le catastrofi che le hanno colpite.

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5. Marinel Ubaldo, la sopravvissuta che chiede responsabilità legale

Ubaldo, diversamente dalle altre attiviste citate, ha visto da vicinissimo che cosa significhi il cambiamento climatico. La giovane è sopravvissuta al catastrofico tifone Haiyan (noto in Occidente con il nome di Yolanda) che ha devastato l’arcipelago nel 2013, e ha scelto di rendere il suo trauma un carburante per l’attivismo. È una delle principali sostenitrici del contenzioso climatico ribattezzato Climate Litigation contro le grandi aziende fossili, con il quale si vogliono mettere le grandi multinazionali del fossile, le Carbon Majors, di fronte alle proprie responsabilità nei confronti del pianeta. Ha testimoniato in presenza di commissioni internazionali e supporta le comunità che domandano giustizia legale.

Il contenzioso climatico non è un tema ufficiale dei negoziati, e potrebbe essere completamente ignorato alla prossima COP30. Ciononostante, la presenza di Ubaldo e quella di altri attivisti occupati in questa aspra battaglia, che non appare facile da vincere, potrebbe esercitare pressione, morale e politica, sulle delegazioni, ricordando a tutti come l’inazione abbia conseguenze rilevanti sulla vita delle persone, anche legalmente parlando.

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Più che attivisti per il clima: chi sono i difensori ambientali?

Il lavoro di questi giovani attivisti per il clima avviene, molto spesso, in condizioni di estremo rischio. I difensori dell’ambiente e della terra, come sono stati definiti dalle Nazioni Unite, sono persone che agiscono per proteggere i diritti umani legati all’ambiente. Quasi sempre, lo fanno combattendo contro interessi economici potenti, ad esempio di importanti conglomerati minerari, forestali, agroindustriali.

Secondo i report annuali dell’agenzia investigativa Global Witness, centinaia di attivisti subiscono minacce o attentati, talvolta mortali, ogni anno. Ciò avviene soprattutto nel Sud globale, e in particolare in America Latina. Proteggere questi attivisti è una delle richieste chiave del movimento per la giustizia climatica. La loro incolumità è infatti essenziale per la tutela degli ecosistemi più a rischio. Senza i difensori ambientali, le foreste e i fiumi resterebbero privi di guardiani, alla mercè degli inquinatori. In vista di COP30 e durante il vertice, non commettiamo l’errore di concentrarci soltanto su chi parla, teniamo anche in considerazione se si tratti di un individuo che stia pagando un prezzo molto alto, a causa della crisi climatica.

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Mattia Mezzetti

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