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Fanghi di depurazione: quasi la metà finisce ancora in discarica

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La gestione dei fanghi prodotti dalla depurazione civile registra un forte ritardo, andando in direzione contraria ai principi dell’economia circolare. Uno spreco di risorse e di energia che l’Italia non può più permettersi

Alla faccia dell’economia circolare, quasi la metà dei fanghi di depurazione dei reflui civili finiscono miseramente in discarica, più o meno 3,4 milioni di tonnellate (anno di riferimento 2022) secondo il nuovo studio di Utilitalia “Fabbisogni impiantistici per una corretta gestione dei fanghi di depurazione”. Un materiale prezioso, sia per il recupero di materia che di energia, che finisce per essere seppellito, rimanendo un costo economico e ambientale a carico dei cittadini. E nonostante il grave ritardo del nostro Paese in tema di depurazione delle acque che ha già portato 4 procedure di infrazione, con 60 milioni di euro pagati ogni anno e il 18% dei reflui di origine urbana non depurati – non riusciamo a valorizzare nemmeno quello che produciamo. La ragione risiede principalmente nella carenza di impianti per la valorizzazione dei fanghi, o meglio della loro disomogenea dislocazione geografica, con gravi lacune soprattutto al Sud e al Centro Italia. Non a caso è da questi territori che sono partiti verso il Nord, molto più provvisto di impianti, quasi mezzo milione di tonnellate: un flusso continuo, destinato ad aumentare con la progressiva messa in regola del sistema di depurazione, almeno in assenza di nuovi impianti nelle Regioni in deficit.

L’uso agricolo dei fanghi può sostenere la transizione ecologica

Con la risoluzione delle procedure di infrazione europee, secondo le stime di Utilitalia, si produrranno circa 800mila tonnellate di fanghi in più, arrivando a circa 4 milioni di tonnellate annue. Dove andranno questi flussi aggiuntivi? Ad aggravare ulteriormente la situazione, la sempre più stringente e ondivaga normativa sull’uso agricolo dei fanghi – tema molto complesso che dopo più di due decenni di lavori non ha ancora trovato una soluzione normativa capace di mettere d’accordo, una volta per tutte, Ispra, quindi Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) con le aziende di trattamento dei fanghi e il mondo agricolo – che rimane la forma di recupero prevalente, riguardando più o meno 1,3 milioni di tonnellate (sia in forma diretta sia attraverso la produzione di ammendanti compostati misti e di gessi di defecazione). Nel caso venisse a mancare l’utilizzo agricolo occorrerebbe, dunque, trovare immediata collocazione per 1,3 milioni di tonnellate di fanghi, alle quali andrebbero a sommarsi ulteriori 800mila tonnellate derivanti dalla risoluzione delle procedure di infrazione.

È scientificamente dimostrato che l’uso dei fanghi sui terreni in sostituzione di fertilizzanti chimici comporta una serie di benefici sulle proprietà fisiche e agronomiche del suolo, grazie all’apporto di nutrienti. Come spiega in un position paper il Laboratorio di ricerca Ref, i fanghi derivanti dalla depurazione delle acque reflue, misurati su sostanza secca, sono composti di norma da carbonio (25-35%), azoto (4-5%), fosforo (2-3%) e ossigeno (20-25%), a cui si aggiungono percentuali minori di altri elementi utili, adatti a diversi usi. Per la loro ricchezza di sostanze nutrienti e materia organica i fanghi rappresentano una materia prima seconda che può sostenere concretamente la transizione ecologica.

La gestione corretta dei fanghi serve a chiudere il ciclo della depurazione

L’impiego in agricoltura è al momento il destino più frequente dei fanghi di depurazione, incentivato dall’assenza di una regia nazionale in termini di pianificazione impiantistica e con politiche di gestione molto eterogenee a livello regionale. “In linea con gli standard forniti da Arera (l’Autorità di Regolazione) – spiega il vicepresidente di Utilitalia Alessandro Russo – i gestori del servizio idrico sono impegnati da tempo in politiche incentrate sulla riduzione dell’utilizzo della discarica per lo smaltimento dei fanghi da depurazione. Questo studio dimostra che nei prossimi anni occorreranno impianti sia per il recupero di materia e successivo utilizzo in agricoltura, sia per il recupero energetico con produzione, tra gli altri, di biometano. In Italia la normativa risale al 1992 e già da tempo ne sosteniamo la necessità di aggiornamento”.

Affinchèla depurazione trovi nella corretta gestione dei fanghi la perfetta chiusura del ciclo, in ottica di circolarità, è necessario:

  • che le Regioni colmino il gap impiantistico attraverso la predisposizione e la successiva attuazione di appositi piani di gestione dei fanghi, in coerenza con gli indirizzi del Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti;
  • un aggiornamento normativo per la realizzazione di un quadro di riferimento stabile e congruente con gli obiettivi eurocomunitari, a cui di recente si è aggiunta la tassonomia;
  • supportare le scelte di policy con robusti studi scientifici nonché, come avviene per le norme eurocomunitarie, con un’analisi degli impatti economici.

La scienza sta dando sbocchi molto promettenti, quello che serve è una strategia di politica industriale. Sempre più impianti stanno investendo in innovazione tecnologica al fine di recuperare materia dalle acque reflue e dai fanghi: principalmente fosforo, ma anche azoto, materiali inerti, PHA, cellulosa. I fanghi da depurazione possono inoltre costituire un’importante fonte di energia verde grazie alla produzione di biogas e biometano tramite impianti di digestione anaerobica. Una tecnologia ormai matura e diffusa nei depuratori di medie e grandi dimensioni, che nel 2018 ha portato in Europa alla produzione di 1,5 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (TEP) di biogas da fanghi di depurazione, oltre il 9% della produzione totale di biogas da materia prima. Di queste, circa 52 migliaia di TEP sono di produzione italiana, ma vi sono Paesi come la Germania, l’Inghilterra e la Polonia che arrivano ad una produzione di oltre 1 milione di TEP. La transizione ecologica passa anche da qui, basta mettersi a lavorare.

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