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La grande muraglia verde contro il disastro ecologico

Great green wall
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Il Great Green Wall sarà una fascia di vegetazione di 8.000 km che attraverserà il continente africano, per contrastare gli effetti del cambiamento climatico.

Il più grande deserto del mondo sta crescendo. Nell’ultimo secolo il Sahara si è espanso di oltre il 10% e oggi copre un’area di 8,6 milioni di chilometri quadrati, abbracciando 11 paesi del Nord Africa. Tra questi, la regione del Sahel è la più colpita. L’acqua, già scarsa, sta diventando introvabile. La qualità del suolo si deteriora e la mancanza di vegetazione espone 135 milioni di persone a carestie sempre più frequenti. In questo quadro drammatico giunge il monito dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) che, nel suo ultimo rapporto, avverte che un riscaldamento globale di 1,5 gradi è atteso entro il 2030.

Obiettivo 100 milioni di ettari di vegetazione al 2030

“È una corsa contro il tempo, ma non ci sono alternative” dice Zara Mahina dell’UNHCR, l’agenzia ONU per i rifugiati, che spostandosi tra Senegal e Mali coordina parte del più maestoso progetto di recupero ambientale mai disposto nella storia dell’umanità. Per fronteggiare un disastro ecologico e umano che si annuncia di proporzioni drammatiche, nel 2007 le Nazioni Unite e l’Unione Africana hanno iniziato i lavori per erigere il Great Green Wall, un’enorme muraglia di alberi che attraverserà il continente. Quindici chilometri di larghezza, 8.000 di lunghezza, 100 milioni di ettari di terra che oggi sono deserto, diventeranno entro il 2030 un mosaico di alberi, vegetazione e praterie. Ma, a soli nove anni dalla data prefissata, c’è ancora molta strada da fare. Ad oggi sono stati ripristinati 4 milioni di ettari di terreno, solo il 4% dell’obiettivo globale, anche se la cifra sale a quasi 20 milioni di ettari contando le aree non comprese nel progetto ufficiale. Gli 11 Paesi coinvolti hanno adottato molte misure autonome di conservazione, tra cui riforestazione, agro-forestazione, terrazzamento e stabilizzazione delle dune del deserto (una tecnica che impedisce il movimento della sabbia abbastanza a lungo da consentire la radicazione della vegetazione naturale). E stanno adottando misure straordinarie per migliorare l’approvvigionamento idrico, con nuovi pozzi e sistemi di irrigazione.

Comunità locali in prima linea

L’Etiopia è tra i Paesi maggiormente afflitti da carestie e scarsità di acqua. Ma è anche quello che sembra aver raggiunto gli obiettivi più consistenti: ha già piantato 5,5 miliardi di piante, rimboschito 150.000 ettari di terreno e terrazzato altri 700.000 ettari. Un’area complessiva che è sette volte Roma. “Ci è voluto più di un decennio per coinvolgere i Paesi e definire le strategie di intervento” spiega Elvis Paul Tangem, coordinatore del progetto presso la Commissione dell’Unione africana. “Ma ora che abbiamo basi solide, sappiamo cosa funziona e cosa no, andremo spediti verso il nostro obiettivo”. L’importanza della collaborazione comunitaria è una delle più grandi lezioni apprese in questi anni di attività: “le comunità locali lottano insieme – spiega Tangem – ciascuna con le proprie credenze e tradizioni, ma tutte in prima linea”.

Lavoro e ambiente alla base della stabilità politica

Se è molto facile piantare un albero, da queste parti non lo è coltivarlo. Annaffiarlo, prendersene cura, far sì che gli animali non lo mangino, sono tutte cose che richiedono tempo, fatica e dedizione. E proprio per questa necessaria e costante attività di cura, i promotori del Great Green Wall hanno previsto la creazione di 10 milioni di posti di lavoro. Secondo stime delle Nazioni Unite, ad oggi, sono 335.000 i nuovi impieghi collegati alla coltivazione di frutti e prodotti forestali, che hanno generato un’economia di 90 milioni di dollari per le aree rurali. Più che in ogni altro angolo del Pianeta, lavoro e benessere ambientale qui sono alla base della stabilità politica. “Una volta completata, la Grande Muraglia Verde potrebbe diventare il simbolo di come le scelte geopolitiche ed economiche, su scala globale, possano essere fondate sul ripristino e sulla protezione della natura” conclude Tangem.

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