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Rifiuti, sottoprodotti e end of waste: che differenze ci sono

riciclo
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Finchè esiste un mercato che ne permette la valorizzazione e il materiale mantiene gli standard di qualità prefissati, il rifiuto non esiste. Le politiche industriali sono determinanti per creare le condizioni di utilizzo degli scarti e prevenire la produzione dei rifiuti, attraverso pratiche di simbiosi industriali.

Qualsiasi sostanza o oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo di disfarsi, secondo il Testo Unico Ambientale (Dlgs 152/2006) è un rifiuto. La classificazione non attiene quindi alle caratteristiche merceologiche o fisiche (salvo ovvie eccezioni) quanto ad una serie di scelte, a partire da come sono concepiti i prodotti, fino al loro fine vita. Generalmente è il contesto che determina lo status di rifiuto, non la sua caratteristica intrinseca. Facciamo un esempio: se un indumento usato viene portato a un’associazione caritatevole è considerato una mera donazione, ma se viene conferito in una campana stradale per la raccolta degli indumenti usati, quell’indumento diventerà un rifiuto. E per rientrare nell’olimpo dei prodotti sarà necessario sottoporlo ad un’attività di preparazione al riutilizzo (ai sensi dell’art. 181). A nessuno sfugge che l’indumento rimane lo stesso, ciò che cambia è il contesto: nel primo caso si rimane nel campo delle semplici donazioni, nel secondo si rientra nel campo dei rifiuti. E in quest’ultimo caso il gestore della campana stradale dovrà essere iscritto all’Albo gestori ambientali e operare in coerenza con la Parte IV del Testo Unico Ambientale. È facile intuire che un oggetto fabbricato per durare, ovvero per essere facilmente riusato oppure riparato, disassemblato o rigenerato, possa trovare molto più spazio nel mercato del second hand rispetto a prodotti concepiti dietro la logica dell’obsolescenza programmata.

Che differenza c’è tra rifiuto e sottoprodotto

Ben diverso dal rifiuto è il sottoprodotto: secondo il Testo Unico Ambientale, qualsiasi sostanza o oggetto che soddisfi tutte le seguenti condizioni:

  • la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
  • è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
  • la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
  • l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.

Sempre il Testo Unico prevede la possibilità di stabilire – attraverso Decreti del Ministero dell’Ambiente – criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare, affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti. Questo permette di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute umana e, al tempo stesso, favorire l’utilizzazione attenta e razionale delle risorse. Un classico esempio di sottoprodotto sono i cascami di pelle o gli avanzi di tessuto, materiali che derivano da attività produttive e non sono mai diventati rifiuto. E finchè esiste un mercato che ne permette la valorizzazione e il materiale mantiene gli standard di qualità prefissati, il rifiuto non esiste; è il contesto a determinare lo status di rifiuto o di sottoprodotto. Spetta allora alle politiche industriali, attraverso pratiche di simbiosi, creare le condizioni per utilizzare gli scarti, svolgendo un ruolo cruciale nella prevenzione dei rifiuti.

Che differenza c’è tra rifiuto e end of waste

Ulteriore distinzione va fatta tra rifiuto e end of waste, ovvero un rifiuto che ha cessato di essere tale. Questo, secondo il Testo Unico Ambientale, avviene quando il rifiuto è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio, nel rispetto delle seguenti condizioni:

  • la sostanza o l’oggetto sono destinati a essere utilizzati per scopi specifici;
  • esiste un mercato o una domanda per tale sostanza o oggetto;
  • la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;
  • l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

In sostanza, si tratta di rifiuti che a seguito di un’attività di recupero hanno cessato di esserlo, rientrando nelle materie prime seconde. L’attività di recupero può consistere anche semplicemente nel controllo dei rifiuti, per verificare se soddisfano i criteri stabiliti dalla disciplina comunitaria oppure dai Decreti del Ministero dell’Ambiente. Anche in questo caso, è il contesto normativo e industriale il vero discrimine tra rifiuto e non-rifiuto e l’elemento in grado di sostenere lo sforzo dell’industria di rifornirsi di materie prime seconde a buon mercato, da un lato, e contenere i costi dello smaltimento dei rifiuti, dall’altro. Norme e policy industriali determinanti anche per aiutare l’intero Paese a raggiungere i nuovi e sempre più ambiziosi target di riciclo.

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