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Cattura e stoccaggio della CO2: a che punto siamo

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Le tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 sono conosciute dall’inizio del ‘900. Il grandissimo limite all’applicazione di queste soluzioni è il fatto che per le aziende rappresentino un costo addizionale. Senza carbon tax e un prezzo delle emissioni adeguato c’è poca convenienza.

A metà settembre la Sanpellegrino ferma la sua produzione di acqua frizzante nello stabilimento della Val Brembana per mancanza di anidride carbonica. Una carenza di materia prima, necessaria a rendere gassata l’acqua minerale e altre bibite, dovuta all’aumento dei costi del gas, a cui si sommano difficoltà di trasporto. La stessa questione interessa da diverse settimane la distribuzione mondiale di birra. Paradossale che possa mancare la CO2 quando, per limitarne la presenza in atmosfera e mitigare il cambiamento climatico, si costruiscono impianti di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica (carbon capture and storage) proveniente da attività industriali fortemente emettitrici. L’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) aveva ipotizzato nel 2013 uno scenario di riduzione della CO2, al 2050, con il contributo delle tecnologie di carbon capture per il 19%, delle rinnovabili per il 17% e dell’efficientamento energetico per il 38%. A che punto siamo sulle tecnologie CCS lo abbiamo chiesto a Francesco Barzagli ricercatore dell’Istituto di chimica dei composti organometallici (Iccom) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr).

Barzagli, qual è attualmente il contributo delle tecnologie di carbon capture and storage alla riduzione della CO2?

“Siamo praticamente a zero. Sommando tutta la capacità di cattura degli impianti operativi esistenti si catturano ad oggi circa 40 milioni di tonnellate di CO2; ne vengono emesse più di 36 miliardi, quindi si cattura in questo momento lo 0,1%”.

Per quanti impianti operativi?

“L’Agenzia internazionale dell’energia ne riportava 27 nel 2021. Parliamo di impianti commerciali su scala industriale, cioè connessi ad attività industriali che producono gas di scarico, tra cui CO2 in alta percentuale, come la produzione di composti chimici o l’upgrading di gas naturale o processi legati alla produzione energetica, principalmente. All’impianto di produzione primaria ne viene abbinato un altro, con colonne alte alcune decine di metri, dove soluzioni liquide amminiche catturano la CO2 emessa. Sono sostanze che reagiscono molto velocemente e possono essere riutilizzate in continuo: dopo aver catturato la CO2 la soluzione viene scaldata a circa 100 gradi e le ammine tornano come nuove”.

Oltre alle soluzioni liquide amminiche, ci sono altri processi tecnologicamente maturi per la cattura della CO2?

“Le alternative non sono così mature come l’utilizzo delle ammine, né così adatte ad essere applicate in impianti dove si trattano gas di scarico, quindi flussi elevati di emissioni continue. Ci sono altre soluzioni tecnologiche – assorbimento su solventi, membrane, criogenia – ma adatte al trattamento di flussi gassosi minori. Come nei processi di produzione di biogas dalle attività di digestione anaerobica delle biomasse, e la sua trasformazione in biometano attraverso upgrading, cioè togliendo CO2. Questi sono flussi bassi, dove è possibile utilizzare tecniche differenti dalle ammine”.

La CO2 catturata può essere utilizzata o stoccata. Dove? 

“Più l’impianto dove avviene la cattura di CO2 è lontano dal punto finale di stoccaggio, più i costi aumentano; solitamente si cerca di realizzare un cluster e avere tutto nello stesso luogo, anche la possibilità di utilizzo o stoccaggio. Liquefare la CO2 per trasportarla è molto costoso, quindi si punta alla costruzione di tubature. Gli impianti commerciali hanno tutti previsto dove effettuare lo stoccaggio; non si può realizzare un impianto di cattura della CO2 senza sapere dove metterla. Attualmente lo stoccaggio viene fatto in giacimenti di gas naturale o di petrolio, solitamente esausti e a profondità importanti. In Norvegia, per esempio, ci sono impianti petroliferi offshore dove viene iniettata l’anidride carbonica, con il vantaggio di aumentare la resa del giacimento. Serve anche a sfruttare fino in fondo un giacimento che andava esaurendosi”.

Quali sono le aziende che dispongono di questa tecnologia?

“Sono tante; la tecnologia è nota da tempo, pronta all’uso, e può essere a disposizione di tutte le compagnie. Poi si può lavorare per migliorarla, ed è quello su cui lavora la ricerca di base. Ma si sa come funziona e quali sono le problematiche”.

Una tecnologia pronta e a disposizione da quanto tempo?

“La cattura della CO2 si fa dagli inizi del ‘900 e, in maniera più industriale, da metà ‘900 per la purificazione dei gas di sintesi. Quando le industrie producevano idrogeno o ammoniaca, per esempio, c’era sempre dell’anidride carbonica come sottoprodotto: tramite un solvente liquido si tratteneva la CO2 e si purificava il gas di interesse. Poi, quando si è pensato di spostare questa tecnologia sui grandi impianti che producono grandi quantità di CO2 in maniera continua, come quelli di produzione energetica basata su combustibili fossili, acciaierie o cementifici, si sono dovute sviluppare strutture più importanti. Le prime strutture commerciali risalgono agli anni ‘80; la maggior parte di quelle attualmente in funzione sono state sviluppate a partire dal 2000, in particolare dal 2010”.

Tra le problematiche vanno inclusi i costi?

“Effettivamente è una tecnologia che costa. Le ammine, per poter funzionare a ciclo continuo, hanno bisogno di temperatura, quindi di energia: devono essere scaldate per poter essere rigenerate e riutilizzate”.

A quanto ammontano attualmente i costi dell’intero processo di cattura e sequestro della CO2?

“Credo che gli impianti attualmente in funzione abbiano un costo per tonnellata di CO2 catturata intorno ai 100 dollari. Il costo operativo del processo è stimato tra i 50 e i 100 dollari a tonnellata, ma la stima a 50 dollari è riferita chiaramente all’ipotesi migliore, basata sulle ultime innovazioni per quanto riguarda ingegneria e solventi”.

Oggi in Europa la quotazione delle emissioni di carbonio si attesta intorno ai 70 euro a tonnellata, il processo di cattura sarebbe quindi remunerativo..

“Diventerebbe conveniente nel momento in cui venissero applicate le innovazioni tecnologiche e a fronte di quel prezzo del carbonio, che invece fino a pochi mesi fa si aggirava sui 20-25 dollari a tonnellata. Nella realtà i processi di cattura, finora, sono costati più di 100 dollari a tonnellata. Il grandissimo limite della tecnologia è il fatto che per le aziende rappresenta un costo addizionale. Se non ci sarà una carbon tax e un prezzo delle emissioni adeguato, nessuno avrà convenienza a svilupparla”.

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