Uno studio dell’Università Cattolica di Piacenza apre nuove prospettive di biorisanamento contro le “sostanze chimiche eterne”, isolando circa 20 specie di batteri in grado di degradare i PFAS utilizzandoli come fonte di energia.
I PFAS, i cosiddetti inquinanti eterni, potrebbero avere “nemici” in grado di farli fuori. Ci sono batteri che se ne nutrono. I risultati di un lavoro dell’Università Cattolica di Piacenza, tuttora in corso, aprono spiragli importanti contro l’inquinamento ambientale prodotto dalle indistruttibili sostanze per- e polifluoroalchiliche. Sostanze con caratteristiche idrorepellenti e oleorepellenti, di cui facciamo largo uso in prodotti di consumo (dai tessuti ai cosmetici, dai rivestimenti agli imballaggi) e che stanno contaminando suoli e acque in modo preoccupante, accumulandosi nell’ambiente e nelle cellule con effetti tossici sull’uomo.
Questa nuova e fondamentale prospettiva di biorisanamento arriva da una delle zone d’Italia a più forte contaminazione, il Veneto, dove un gruppo di ricerca ha isolato dal suolo contaminato circa 20 specie di batteri in grado di degradare i PFAS utilizzandoli come fonte di energia. Il lavoro è stato coordinato dal professor Edoardo Puglisi della Facoltà di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Università Cattolica e realizzato in collaborazione con il gruppo del professor Giancarlo Renella dell’Università di Padova.
Il carbonio dei PFAS come fonte di energia per i batteri
I PFAS sono detti “sostanze chimiche eterne” perché molto difficili da biodegradare nell’ambiente in ragione del forte legame chimico tra carbonio e fluoro che caratterizza queste molecole; i batteri studiati sono stati posti in condizione di avvalersene come unica fonte di carbonio, spiegano i ricercatori in una nota diffusa in occasione della presentazione dei loro risultati. “Abbiamo ottenuto questi batteri che mangiano PFAS attraverso un processo chiamato ‘arricchimento’, che consiste nel coltivarli in terreni dove hanno solo PFAS di cui nutrirsi”, dice il professor Puglisi. “Abbiamo già i genomi completi di questi 20 ceppi che mangiano PFAS e le informazioni sui tassi di degradazione di ciascuno di essi. In collaborazione con il gruppo di chimica del nostro dipartimento, abbiamo misurato l’efficienza di degradazione dei PFAS, raggiungendo in alcuni casi valori superiori al 30%, che è molto alto per questa classe di composti”, prosegue.
Le tecniche di ricerca
Per fare questo, gli esperti sono partiti dall’analisi della diversità microbica nei terreni contenenti PFAS campionati in aree inquinate del nord Italia, in particolare in siti altamente contaminati della regione Veneto nelle province di Vicenza e Padova. Nell’area oggetto di indagine nella provincia di Vicenza, i livelli di contaminazione diffusa delle falde acquifere, dei suoli, delle colture e persino dell’acqua potabile raggiungono concentrazioni anche di oltre 1000 nanogrammi per litro. Il gruppo di ricerca ha combinato le tecniche classiche di microbiologia per l’isolamento dei batteri di interesse con il metabarcoding, una tecnica di biologia molecolare basata sul sequenziamento del DNA raccolto in un campione ambientale, utilizzata per identificare rapidamente le specie presenti, fornendo indicazioni sul potenziale di biorisanamento dei PFAS.
Prosegue l’analisi dei genomi
Sono ora in corso test su vari PFAS, che saranno seguiti da esperimenti di laboratorio per verificare le loro capacità di bonifica in condizioni più rappresentative. “Stiamo studiando questi ceppi in modo più approfondito e analizzando i loro genomi: sono classificati nei generi noti nel campo del biorisanamento come Micrococcus, Rhodanobacter, Pseudoxanthomonas e Achromobacter”, spiega Puglisi. “Questi batteri sono facilmente coltivabili in laboratorio e di solito non sono dannosi per l’uomo. Inoltre, è possibile che l’analisi del genoma possa portare alla scoperta di geni coinvolti nella biodegradazione che potrebbero essere sfruttati biotecnologicamente in futuro”, sottolinea il professore dell’Università Cattolica.