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La resilienza delle città inizia dalla rigenerazione urbana

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Il governo delle città italiane ha seguito la logica dell’espansione e del consumo di suolo, che le rende vulnerabili alle conseguenze del cambiamento climatico. Per aumentarne la resilienza si potrebbe investire sulla rigenerazione urbana. Una cultura che nel nostro Paese sembra ancora agli inizi. Ne parliamo con l’urbanista Alessandro Bianchi.

Nelle Marche abbiamo avuto nelle scorse settimane l’ennesima catastrofe da dissesto idrogeologico. L’ultima di una lunga serie nel nostro Paese, che in tema di prevenzione del rischio e difesa del territorio ha ancora molto da fare. Ne parliamo con il professor Alessandro Bianchi, urbanista, ex Ministro dei Trasporti e direttore della Scuola di Rigenerazione urbana e ambientale “La fenice urbana”, secondo il quale “le catastrofi naturali non esistono, perché la vera causa di quanto accaduto è da ricercare nel modo in cui abbiamo trattato e continuiamo a trattare il territorio, rendendolo incapace non solo di fronteggiare ma evitare questo tipo di conseguenze. Stiamo parlando di territori densamente abitati, in cui abbiamo costruito per decenni in maniera irresponsabile, senza nessun rispetto per le leggi e i comportamenti degli agenti naturali. Se c’è una bomba d’acqua in mezzo al deserto del Sahara, non si fa male nessuno. Quello che manca è una visione d’insieme del problema territorio, fatto di componenti molteplici, tra cui l’ambiente naturale. Le conseguenze disastrose dei fenomeni metereologici estremi non dipendono solo dall’evento naturale”.

Professore, crede che i fondi del PNRR potranno incidere sulla pianificazione territoriale?

“È chiaro che quando molti soldi vengono indirizzati in un certo ambito d’intervento, qualcosa succede. Però anche con il Piano nazionale di ripresa e resilienza siamo ben lontani dal fare quello che occorrerebbe in materia di difesa idrogeologica. Il Consiglio nazionale dei geologi si è espresso chiaramente in questo senso, dicendo che nelle varie misure che riguardano l’aspetto idrogeologico ci sono carenze di carattere strutturale, e assoluta assenza di azione preventiva. Prevenire queste catastrofi e non subirle è il grande nodo della questione. La risposta, quindi, è no: con i fondi del PNRR la situazione potrà certamente avere qualche miglioramento, ma non andrà nella direzione giusta”.

Lei contrappone la cultura della rigenerazione urbana a quella dell’espansione, che nel nostro Paese ha prevalso nei processi di governo delle città. Stiamo facendo progressi in termini di cultura della rigenerazione?

“No assolutamente. Siamo nel buio pesto. Da qualche decennio si parla anche in Italia di rigenerazione urbana; abbiamo mutuato questo termine da altri Paesi, in particolare dal nord Europa, ma continuiamo a confonderla con altri tipi di interventi: la ristrutturazione, la riqualificazione, il risanamento, il recupero. Cose che facciamo da molto tempo e per le quali esistono leggi, regole di comportamento, canali di finanziamento. Se con rigenerazione intendiamo queste tipologie d’intervento, potevamo evitare di inventarci un termine nuovo. Se non significa la stessa cosa, ed è così, dobbiamo capire esattamente cos’è. Possiamo parlare di rigenerazione se la destinazione d’uso dell’oggetto urbano sul quale interveniamo, dopo l’intervento è completamente diversa. Prendiamo ad esempio i siti industriali dismessi, che in Italia complessivamente coprono 9.000 kmq, più o meno una regione grande come le Marche o la Basilicata. In alcuni casi si fanno interventi alla fine dei quali la natura dell’area industriale è tutt’altra. Quando il Lingotto, fabbrica di automobili Fiat, diventa dopo alcuni anni di intervento un centro polifunzionale, questa è rigenerazione; quando la centrale elettrica Montemartini di Roma, dismessa, dopo anni di interventi diventa un museo della statuaria romana è rigenerazione. Questa idea non è entrata nella testa di chi si occupa di queste cose, compresi coloro che hanno scritto il PNRR, che dedica circa 2,4 miliardi di euro alla rigenerazione urbana, con cui però si può fare di tutto: sistemare una piazza o intervenire su un immobile residenziale, che non è rigenerazione. La rigenerazione è una cosa precisa e ha bisogno di regole precise. C’è un disegno di legge che è stato approvato al Senato e che purtroppo si è fermato con la crisi di Governo, che si chiama ‘Interventi urgenti per la rigenerazione urbana’. Ma anche in quel caso, dopo alcune premesse ben fatte, i finanziamenti possono coprire cento cose diverse. La cultura della rigenerazione è al punto zero”.

Per aumentare la resilienza delle città agli effetti del cambiamento climatico si parla molto di città spugna, caratterizzate da un’alta permeabilità del suolo. Che ne pensa?

“Effetto spugna significa diminuire o evitare un’eccessiva copertura artificiale del suolo per la quale, quando piove, l’acqua non va nel terreno ma scorre superficialmente. È verissimo che se noi avessimo delle città il cui indice di permeabilità dei suoli fosse assai superiore a quello attuale, il maggiore assorbimento del terreno impedirebbe alle acque di scorrere superficialmente e fare danni. È un tema squisitamente urbanistico: di fronte alle esigenze di crescita e miglioramento di una città, devo fare una scelta che non consumi ulteriore suolo. E visto che non lo occupo, non lo impermeabilizzo. Se mi serve una scuola nuova, un auditorium o altro, utilizzo un edificio che esiste già all’interno del mio centro urbano, facendo per l’appunto rigenerazione e affrontando a monte il tema dell’effetto spugna. Altra cosa è volerlo affrontare in maniera retrospettiva: ho coperto molto il suolo cementificandolo e posso fare alcuni interventi, ma è come usare l’aspirina per curare una polmonite; non posso pensare di mettermi a togliere superfici coperte, piazze, strade per aumentare l’effetto spugna. Posso fare in prospettiva, invece, una politica urbanistica per cui la caratteristica di un’alta permeabilità del suolo venga rispettata. Auckland è in testa a una classifica di città spugna di cui avete scritto, ma fa da tempo una politica molto attenta alle esigenze del territorio”.

Tra gli interventi possibili, si parla di de-impermeabilizzazione del patrimonio immobiliare dismesso. Sono esperienze che stiamo realizzando anche in Italia?

“Non ho contezza di interventi di de-impermeabilizzazione, diciamo di trasformazione da suolo coperto artificialmente a suolo restituito a terreno naturale. Sarei felice che qualcuno mi dicesse ‘guarda qui come abbiamo fatto bene’, ma dubito fortemente che possano esistere casi in cui, con la migliore buona volontà, si ottengano risultati significativi”.

Lei è socio onorario del Think tank RiCostruiamoRoma. Da dove partirebbe: mobilità, gestione dei rifiuti o riqualificazioni? E quale percorso immagina per la rigenerazione della Capitale?

“Mi interesso a Roma non da oggi: nel 2013 mi sono presentato con una lista autonoma alle elezioni di Sindaco. Roma è un unicum mondiale: da quasi borgo che era nel 1870, con circa 150mila abitanti, diventa Capitale del Regno d’Italia e da allora cresce a dismisura. Senza che nessuno avesse un progetto complessivo, una prospettiva. Piani e provvedimenti hanno avuto come caratteristica comune quella di rispondere alle esigenze della rendita fondiaria e della speculazione edilizia. Quindi non potevano non crearsi problemi giganteschi: dalla mobilità, un altro rifiuti e potremmo proseguire con un lungo elenco”.

Soluzioni per rifiuti e mobilità?

“A Roma i rifiuti sono un problema enorme, di cui non possiamo addossare tutta la colpa a Gualtieri o a Raggi, nonostante insufficienze gravi. Bisognerebbe muoversi su due piani diversi: pulire le strade, con squadre di lavoratori in tutti i quartieri, e far sì che i cassonetti siano vuoti. Ma dall’altra parte bisogna fare i conti con i termovalorizzatori, su cui c’è un dibattito enorme. Ci sono impianti di questo tipo nel pieno centro di Vienna, a Copenaghen, e non mi sembra che determinino tutti questi danni ambientali, mentre risolvono certamente problemi giganteschi nella gestione dei rifiuti. Per la mobilità, il problema non si risolverà mai con interventi di carattere ingegneristico: non c’è altra soluzione che togliere dalla strada un milione di automobili. L’indice di motorizzazione di Roma, cioè il numero di veicoli per abitante, è il doppio di quello di Londra e di Parigi. Abbiamo troppe automobili; bisogna toglierne un milione. Come si fa? Un po’ alla volta, in dieci anni. È evidente che bisogna dare un’alternativa a chi la mattina esce di casa e prende l’automobile. Dovremmo disincentivare chi lo fa per scelta, ma soprattutto far diventare un gioiello tutta la rete di circolazione dei mezzi pubblici, a partire dai tram. Roma era una città inondata di tram fino a 50 anni fa. Li abbiamo tolti. Bisogna tornare a fare in modo che mentre riattivo due, tre, cinque linee tranviarie comincio a impedire l’accesso a certe strade alle automobili. È chiaro che è un processo difficile e lungo nel tempo ma non c’è alternativa”.

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