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Marine cloud brightening: geoingegneria al servizio degli oceani

Marine cloud brightening: nuvole bianche
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Tra le numerose controindicazioni del cambiamento climatico provocato dall’azione antropica c’è quella della distruzione della barriera corallina australiana. Per noi europei, si tratta di una problematica di secondo piano, dal momento che è collocata in un quadrante molto lontano da quello dove viviamo e siamo dunque portati, inconsciamente, a sottovalutarla. Ciò non significa che si tratti di una questione secondaria. Per porvi rimedio, è stato sviluppato un metodo promettente, noto come marine cloud brightening. Si tratta di spruzzare acqua salata nell’atmosfera, in modo da dare origine a nuvole particolarmente chiare che possano riflettere meglio la luce solare.

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Il marine cloud brightening

La complicata espressione marine cloud brightening è traducibile, in lingua italiana, con le parole schiarimento delle nuvole marine. Si tratta di un’operazione di geoingegneria solare particolarmente complessa, ma altrettanto promettente. Le soluzioni tecnologiche che mirano a schermare, quantomeno parzialmente, le radiazioni solari sono sempre più popolari, nonostante i loro costi ingenti e le difficoltà realizzative. Di fronte a una situazione costantemente più grave e a una necessità sempre più impellente di guadagnare tempo, al fine di evitare il peggio, operazioni di questo genere sono prese in seria considerazione, dal momento che ci consentono di abbassare la temperatura terrestre.

Il processo del marine cloud brightening richiede l’utilizzo di appositi cannoni, chiamati a spruzzare nella bassa atmosfera una miscela di acqua marina. La tecnologia si è ispirata a quella utilizzata sulle piste da sci per generare neve artificiale. Quando il liquido sottratto al mare evapora, si lascia dietro una sorta di nebbia, composta da minuscoli cristalli di sale, che si lega alle nuvole e le schiarisce. Sfruttando queste caratteristiche, è possibile incrementare l’albedo delle nuvole marine, ovvero la loro capacità di riflettere la radiazione solare. Si possono così proteggere particolari aree dell’oceano dalle ondate di calore e abbassare la temperatura dell’acqua in superficie.

L’esigenza di agire in fretta

Misure come quella ora descritte possono apparire trovate da film di fantascienza, e in effetti ci fanno un pò storcere il naso, dal momento che agire in modo tanto brutale nei confronti del pianeta non ci pare eticamente corretto, eppure c’è un’emergenza in corso ed è necessario attivarsi in fretta. Gli ultimi rapporti del gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) sono stati molto chiari. La finestra temporale per mantenere il riscaldamento globale sotto gli 1,5 gradi in più rispetto all’era preindustriale si sta chiudendo. Non solo. Come ha dichiarato il Copernicus Climate Change Service, nel periodo tra febbraio 2023 e gennaio 2024 la soglia del grado e mezzo è già stata superata.

Gli ultimi 12 mesi sono stati i più caldi da quando abbiamo a disposizione le misurazioni. Di fronte a queste evidenze, si cercano nuove soluzioni. Quella della geoingegneria viene sempre più spesso presa in considerazione. Secondo il punto di vista di uno dei massimi esperti italiani in materia, Stefano Caserini, docente presso l’Università di Parma, non dovremmo scandalizzarci di questa pratica, dal momento che, in realtà, l’essere umano la porta avanti già da tempo:

“Geoingegneria è di per sé un termine ambiguo, perché non ha dei contorni ben definiti. Il genere umano, continuando a immettere senza sosta anidride carbonica e altri gas a effetto serra in atmosfera, sta per certi versi compiendo un enorme esperimento di geoingegneria.”

Marine cloud brightening per salvare la barriera corallina

Marine cloud brightening: la barriera corallina
Il marine cloud brightening potrebbe salvare la barriera corallina dallo sbiancamento

In Australia, nell’ambito del programma RRAP, Reef Restoration and Adaptation Program, ripristino e adattamento della Grande Barriera Corallina, si ripongono ampie speranze nel marine cloud brightening. Gli effetti del cambiamento climatico stanno infatti minacciando in maniera seria la barriera, che non è in grado di reggere allo stress causatole dall’aumento delle temperature. Sottoposti all’innalzamento delle temperature oceaniche, i coralli sbiancano. A partire dal 1998 abbiamo assistito a numerosi fenomeni di bleaching, tra cui quello, particolarmente rilevante, datato 2022.

Nel 2020 i ricercatori della Southern Cross University hanno condotto un primo test di schiarimento sulla Grande Barriera centrale, a pochi chilometri da Townsville. Il progetto australiano non ha mai avuto una dimensione globale. L’idea dei ricercatori è quella di realizzare un sistema di adattamento locale agli effetti del surriscaldamento globale. Persistono infatti numerosi dubbi sull’opportunità di avviare pratiche di brightening su ampia scala, dal momento che la tecnologia è ancora un’avanguardia e non esistono risposte sulle eventuali conseguenze.

Dubbi e speranze

“Il dibattito scientifico è in corso. Per prendere tempo ed evitare sul medio-lungo periodo danni irreversibili, potrebbe valere la pena indagare questo tipo di soluzioni, una volta fatta un’attenta valutazione dei rischi e dei benefici. Ma ciò non mette in discussione assolutamente le politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici, ovvero la riduzione delle emissioni di gas serra. Ci sono interventi da cui non si può prescindere, come l’eliminazione graduale dei combustibili fossili.”

Afferma Caserini. Geoingegneria si o no dunque? A quanto pare, la soluzione migliore è quella di integrare tecniche come il marine cloud brightening ad altre politiche climatiche di indubbia efficacia. Quel che è certo, è che gli occhi di tutto il mondo sono puntati sull’Australia e sull’esito del suo progetto di schiarimento.

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Mattia Mezzetti

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