Le Geostorie della Majella raccontano gli antichi mestieri e le tradizioni ancestrali che segnano il legame inscindibile tra uomo e territorio. Un progetto divulgativo tra geologia e storia di comunità, il cui sviluppo futuro potrebbe essere la nascita di un GeoParco.
La complessità geologica del Massiccio della Majella racconta la sua lunga e dinamica storia evolutiva, risalente a circa 140 milioni di anni fa, quando le rocce carbonatiche che costituiscono oggi l’Appennino abruzzese iniziavano a formarsi da sedimenti di mare poco profondo, in un lembo dell’Oceano della Tetide. La storia antica di quest’area, che si legge nella morfologia del territorio e nella ricchezza della sua biodiversità, è stata posta sotto tutela con la Legge n.394/91 e nel 1995 con l’istituzione del Parco nazionale. Una storia plasmata, in parte, anche dal legame inscindibile tra uomo e territorio raccontato dalle Geostorie della ricercatrice Violetta De Luca, un progetto di divulgazione presentato nell’ambito dell’evento “Abruzzo: dalla rigenerazione alla valorizzazione del territorio”.
Storia e territorio nelle Geostorie della Majella
I racconti della Majella bianca rimandano alla pietra bianca come il calcare, che ha dato pane e speranza alle popolazioni del posto. I “suonatori” di rocce – come li chiama De Luca – erano i cavatori e le maestranze dedite all’approvvigionamento della materia prima da fornire alle botteghe; i minatori della Majella hanno posto le basi dell’economia moderna, intrecciando la loro attività a quella, più tradizionale, di contadini e pastori. E alla Majella bianca fa eco la Majella nera, per via delle rocce che, dalle viscere, restituiscono bitume. Lingue nere, giganti e sinuose, che affioravano dalle miniere per attrarre altre fatiche e altri progetti, altri sogni di emancipazione dalla fame. La formazione del bitume è legata alla presenza – antica di milioni di anni – di fitoplancton, che, insieme ad altri fattori, porta alla formazione di un composto detto Sapropel, e in condizioni particolari di temperatura e pressione – in tempi molto lunghi – si trasforma in petrolio. Sin dall’inizio della sua scoperta, il bitume veniva utilizzato per impermeabilizzare lo scafo delle navi oppure la punta dei pali di legno, per poterli conficcare in terreni paludosi, o ancora per fabbricare il fuoco greco, una miscela esplosiva che serviva per attaccare le navi nemiche, considerata una vera e propria arma segreta dall’impero romano d’Oriente. Nell’area della Majella, veniva usato per scopi più domestici, come accendere il fuoco, riparare vasellame o marchiare le greggi. Il primo a sfruttare il bitume intrappolato tra le rocce della Majella è stato, a metà del 1800, Silvestro Petrini, che ebbe l’intuizione di fondare il primo stabilimento industriale. Grazie a lui, a Vallebona di Manoppello, ebbe inizio la storia del bacino minerario della Majella settentrionale e dei suoi peciaroli, ovvero i minatori che estraevano dodici ore al giorno il bitume dalle rocce della Majella. In un mondo di agricoltori e pastori, nasce da quelle strane rocce la prima industria petrolifera. Da allora, numerose imprese italiane e straniere hanno investito sul bitume abruzzese, fino all’arrivo nel 1889 della compagnia tedesca Reh, in mano all’omonimo Adolfo, che dopo aver testato la qualità del bitume per la produzione di asfalto decise di rilevare tutte le concessioni del distretto. Solo nel 1923 l’utilizzo della risorsa torna in mano italiana, con SAMA, una grande società mineraria cvostituita da imprenditori abruzzesi, che nel 1974 passa a Italcementi.
Dalle Geostorie al GeoParco
Il lavoro scientifico di Violetta De Luca è un esempio concreto di geoantropologia e analizza il legame profondo che si è instaurato tra uomo e territorio in questa parte di Abruzzo, dove l’azione dell’uomo si compenetra con l’ambiente circostante e la geologia diventa materia viva, storia di comunità. Che va recuperata e valorizzata. “Su questo territorio – conclude Violetta De Luca – l’ideale sarebbe sviluppare un progetto di futuro Geoparco, sull’esempio del Parco geominerario della Sardegna e del Museo delle Miniere dell’Amiata, in Toscana”.