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PFAS: come ridurre i rischi

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Dai sistemi di filtrazione domestica all’attenzione alle etichette. I consigli di Greenpeace per ridurre i rischi di contaminazione da PFAS. Con la speranza che si vada verso un divieto di utilizzo e produzione.

Sulla pericolosità dei PFAS paghiamo un gap conoscitivo, perché per lungo tempo queste sostanze sono state ritenute innocue. Lo sostiene Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia, che sui cosiddetti inquinanti eterni ha condotto numerose campagne di monitoraggio e ha da poco pubblicato il libro “PFAS. Gli inquinanti eterni e invisibili nell’acqua” (edizioni Altreconomia). Lo abbiamo intervistato per capire quali sono le potenziali conseguenze associate alla presenza di questi inquinanti nell’ambiente e avere qualche consiglio per la riduzione dei rischi.

Ungherese, quali sono gli effetti dei PFAS sulla salute umana?

“Rispetto ad altri inquinanti noti, come il DDT, i PFAS non si accumulano nei grassi e la scienza li ha ritenuti a lungo innocui, incapaci di interagire col nostro corpo. A partire dagli anni 2000 si è cominciato a sviluppare un quadro conoscitivo molto più ampio e oggi sono numerosissime le prove che dimostrano la pericolosità di queste sostanze. Al di là di patologie gravi, come le forme tumorali (il PFOA, molecola della famiglia dei PFAS, è da poco stata definita cancerogena dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, mentre il PFOS è classificato come possibile cancerogeno per l’uomo), dei danni al fegato e alla tiroide, il più grosso problema è che queste molecole sono interferenti endocrini, in grado cioè di interagire col sistema ormonale che è alla base di tutta una serie di nostre funzioni: pensiamo alla crescita, al metabolismo, alla fertilità. Gli ormoni nel nostro copro funzionano bene a bassissime concentrazioni: se queste sostanze vanno ad interagire col sistema ormonale, simulando l’effetto degli ormoni, possono dare falsi segnali anche a dosi veramente irrisorie. Per questo bisognerebbe intervenire prontamente per evitare che le persone siano esposte ai PFAS attraverso qualsiasi fonte, che sia acqua, aria, cibo, o prodotti con cui entriamo in contatto quotidianamente”.

Come possono i cittadini sapere se sono stati contaminati da PFAS?

“Purtroppo, ad oggi, in Italia non è possibile effettuare analisi del sangue che rivelino la presenza di queste sostanze. Solo in alcune aree del Veneto e del Piemonte parte della popolazione è stata sottoposta a screening sanitari, perchè si tratta di aree con ben documentati e elevati casi di inquinamento da PFAS”.

In Veneto e Piemonte queste sostanze sono state trovate anche nell’acqua potabile. Come possono gli italiani sapere se corrono lo stesso rischio?

“Per ottenere queste informazioni è opportuno rivolgersi al gestore del servizio idrico e alla ASL di riferimento. Oggi, la presenza di PFAS nelle acque potabili non è regolamentata, se non in Veneto. A partire da gennaio 2026 entrerà in vigore la nuova Direttiva europea che prevede il monitoraggio dei PFAS anche nell’acqua potabile, anche se, a nostro avviso, pone limiti troppo alti e non cautelativi per la salute umana. Infatti l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente degli Stati Uniti (EPA) introdurrà limiti molto severi sulla presenza di PFAS nell’acqua potabile: le molecole PFOA e PFOS dovranno essere ridotte allo zero tecnico. Una notizia che segna un importante passo in avanti. La Direttiva europea è comunque molto importante perché obbliga i gestori e le ASL a fare i controlli, anche se, come evidenziano i nostri recenti dossier su Piemonte e Lombardia, in alcune regioni gli enti si sono già attivati prima dell’entrata in vigore della nuova Direttiva”.

Come può un comune cittadino ridurre al minimo il rischio di contatto con i PFAS?

“Prima di tutto è bene capire se l’acqua potabile è contaminata. In tal caso esistono sistemi di filtrazione domestica, come l’osmosi inversa, che consentono di abbattere la presenza di queste molecole. È preferibile cercare di non utilizzare tappeti e tappezzerie resistenti alle macchie, non utilizzare spray impermeabilizzanti, monitorando in generale la presenza dell’ingrediente politetrafluoroetilene, o PTFE, o altri ingredienti “fluoro” sulle etichette dei prodotti. Evitare contenitori da asporto e altri imballaggi alimentari oleorepellenti, scegliere il filo interdentale rivestito in cera naturale, evitare cosmetici waterproof. Si tratta di prodotti che potrebbero contenere queste molecole. Anche le padelle antiaderenti potrebbero contenere residui di PFAS, per questo è preferibile utilizzare alternative come ad esempio l’acciaio inox”.

Quali sono le tecnologie che possono abbattere la contaminazione? Quanto sono diffuse? 

“Se parliamo di bonifiche, oggi gran parte delle tecnologie sviluppate non sono state applicate su vasta scala: c’è ancora molto lavoro da fare per contenere i costi e renderle facilmente utilizzabili. Viceversa, esistono già numerose tecnologie che permettono di azzerare la contaminazione degli acquedotti. Tuttavia, si tratta di una soluzione tampone che non risolve il problema alla radice. Considerando che, per gran parte degli usi attuali esistono alternative più sicure ai PFAS, è bene concentrare gran parte degli sforzi verso un divieto dell’uso e della produzione di queste molecole. La Francia, ad esempio, ha recentemente approvato un disegno di legge che vieta l’uso di queste sostanze in alcuni prodotti come tessili, scioline, cosmetici”.

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