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Riciclo della plastica, in Europa chiudono gli impianti: è crisi industriale e ambientale

riciclo della plastica
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Il 2025 è stata un’annata nera per il riciclo della plastica nell’Ue. La chiusura di numerosi impianti sta mettendo a rischio il settore e con esso le reali possibilità di transizione verso un’economia circolare. Tra gennaio e luglio 2025 è andata persa una capacità di riciclo pari a quella dell’intero 2024 secondo i dati di Plastics recyclers Europe. Si teme una perdita di capacità di un milione di tonnellate entro fine anno. Intanto, fallita la Conferenza di Ginevra, non è stato posto ancora nessun limite alla produzione dilagante di plastica.

L’allarme è stato lanciato da Plastics recyclers Europe: l’industria europea del riciclo della plastica rischia il collasso. In tempi brevi. Secondo la stima, entro la fine del 2025 chiuderanno impianti per un milione di tonnellate di capacità. “L’impennata delle importazioni di plastica riciclata a basso prezzo, il conseguente calo della domanda di materiali riciclati prodotti nell’UE, le crescenti pressioni economiche e l’eccessiva burocrazia stanno spingendo un numero crescente di riciclatori dell’UE a chiudere i battenti”, ammonisce l’organizzazione che dà voce ai riciclatori europei di materie plastiche.

Una drastica inversione di trend: crescita netta zero dopo anni di espansione

L’industria europea del riciclo della plastica – che riprocessa i rifiuti plastici in materiali di qualità destinati alla produzione di nuovi articoli – pesa per oltre 9,1 miliardi di euro di fatturato, ha 13,2 milioni di tonnellate di capacità di riciclo installata, circa 850 impianti e impiega oltre 30.000 persone. Secondo i dati di Plastics recyclers, però, tra gennaio e luglio 2025 è andata persa una capacità di riciclo pari a quella dell’intero 2024, ed entro la fine dell’anno la capacità di riciclo persa con le chiusure potrebbe superare di tre volte quella del 2023. Per la prima volta, dopo anni di espansione, le previsioni indicano una crescita netta pari a zero. Un trend, decisamente critico sul fronte della transizione verso un’economia circolare, che ha già interessato Paesi Bassi, Germania e Regno Unito in particolare.

Le richieste di Plastics recyclers Europe per evitare altre chiusure

“Il crollo del settore europeo del riciclo della plastica causerebbe danni irreversibili ai progressi ambientali e all’innovazione conseguiti nell’ultimo decennio, mettendo a repentaglio il raggiungimento degli obiettivi climatici dell’UE e la sua competitività a lungo termine”, scrive Plastics recyclers Europe, che per rilanciare la domanda di materiali riciclati nell’Unione e prevenire ulteriori chiusure, chiede di attuare con urgenza meccanismi di difesa commerciale e di mercato, controlli doganali più severi, di garantire norme coerenti in materia di responsabilità estesa del produttore (EPR) e di applicare rigorosamente la certificazione di terze parti e sanzioni armonizzate per i materiali non conformi.

Il fallimento della conferenza di Ginevra sulla plastica

Che sul fronte della plastica, rispetto agli obiettivi climatici e di tutela dell’ambiente, le cose non andassero troppo bene, lo avevamo già capito ad agosto quando la conferenza Onu di Ginevra si è chiusa con un nulla di fatto. I 183 Paesi che vi hanno partecipato non sono riusciti a raggiungere un accordo sul testo del Trattato globale contro l’inquinamento da plastica, nonostante l’appuntamento (per essere precisi: la seconda parte della quinta sessione dell’International negotiating committee on plastic pollution delle Nazioni unite) arrivasse dopo tre anni di negoziati.

Tra parti con interessi evidentemente troppo contrastanti. Intervenuta in massa, è pesata la lobby dei produttori di combustibili fossili, oltre al diritto di veto concesso a ogni Stato. Dai negoziati sono uscite due bozze. Nessuna intesa. Sessione sospesa, in attesa di nuove date per il prossimo round negoziale. Il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha parlato della lotta all’inquinamento da plastica come di una “sfida monumentale”, manifestando un deciso rammarico sul mancato consenso su uno strumento internazionale giuridicamente vincolante.

Per l’Italia, ridurre la dispersione resta l’obiettivo

L’Italia, dal canto suo, ha affidato il suo commento alla viceministra dell’Ambiente e della sicurezza energetica Vannia Gava. “I negoziati si sono bloccati a causa delle divisioni tra Paesi contrari a limiti globali sulla produzione di plastica, e i contrasti tra Paesi in via di sviluppo sui meccanismi finanziari”, si legge sul sito del ministero. “Dispiace per l’esito della sessione, anche se era chiaro fin dall’inizio che sarebbe stato un confronto complesso. L’obiettivo deve restare la riduzione della dispersione delle plastiche: l’inquinamento da plastiche e microplastiche è dannoso per l’ambiente e per la salute umana”, le parole di Gava.

I numeri della produzione di plastica e del riciclo

Dagli anni 50 del secolo scorso la produzione di plastica è aumentata di duecento volte fino a raggiungere i 460 milioni di tonnellate l’anno (fonte Ocse). Senza cambiamenti e un accordo globale, si stima che al 2050 la quantità di plastica prodotta raggiunga gli 884 milioni di tonnellate, e secondo altre fonti più pessimistiche superi addirittura i due miliardi di tonnellate all’anno. Di tutta la plastica prodotta dagli anni 50 solo il 10% è stato correttamente riciclato. Nel 2023, l’Italia ha riciclato solo il 48% della plastica da imballaggi.

E c’è anche il problema dello smaltimento dei rifiuti plastici. Greenpeace Italia, che ha lanciato una petizione per chiedere ai leader mondiali azioni concrete affinché sia raggiunto un accordo per un Trattato globale contro l’inquinamento da plastica, sottolinea che “una parte di ciò che separiamo e differenziamo correttamente nelle nostre case viene spedito all’estero: in teoria per essere riciclato, ma il più delle volte non è così. Questa spazzatura non riciclata si riversa quotidianamente in Paesi come la Turchia, inquinando terra, fiumi e mettendo a rischio la salute della popolazione”.

La plastica è dannosa ancora prima di entrare in commercio: il 99% viene prodotta da petrolio e gas fossile e inquina in ogni fase del ciclo di vita, dalla produzione all’incenerimento. Inoltre, se dispersa in natura, si degrada in tempi estremamente lunghi: una bottiglia di plastica può rimanere nell’ambiente addirittura per 500 anni, denuncia l’associazione ambientalista. Senza contare l’assorbimento delle microplastiche da parte degli esseri umani e degli organismi viventi in generale e l’accumulo della plastica negli oceani. Si stima che negli oceani vi siano depositati più di 130 milioni di tonnellate di plastica e si prevede (Fondazione Ellen MacArthur) che, se continua così, attorno al 2050 negli oceani ci saranno più plastiche che pesci e creature marine.

Il contrasto tra interessi economici e ambiente

A bloccare i lavori di Ginevra gli interessi economici dei produttori di petrolio e lo scontro tra paesi, diversamente ripartiti in due opposte coalizioni: quella più folta ma più debole di coloro che spingono per introdurre limiti alla produzione di plastica e all’impiego di sostanze chimiche pericolose nelle lavorazioni, la cosiddetta High ambition coalition, e quella più ridotta ma più potente dei paesi che non vogliono toccare la produzione di plastica ma concentrarsi solo su gestione e riciclo.

La prima, guidata da Norvegia e Ruanda, comprende tra gli altri, Unione europea, Francia, Germania, Canada, Svezia, Giappone, Regno Unito, Corea del Sud, Canada, Perù, Panama, Australia, Nigeria, Ucraina, Micronesia e gli Emirati Arabi Uniti, diversamente da tutti gli altri Stati produttori di petrolio. Non vi rientra l’Italia. Della seconda, guidata dall’Arabia Saudita, fanno parte Kuwait, Iran, Iraq, India, Malesia, Russia, Marocco, Cuba, Uganda, Kazakistan; l’argomento chiave è la sovranità nella gestione delle proprie risorse nazionali, con riferimento al petrolio, che si traduce in un no deciso a trattati vincolanti per tutti.

A fare muro anche Stati Uniti e Cina, ma con posizioni più ambigue. Di fatto, un contrasto tra economia e ambiente, che rischia di incidere pesantemente anche sulla lotta alle emissioni climalteranti. Sul tavolo dei negoziati, c’era (e rimane), inoltre, l’istituzione di un meccanismo finanziario per guidare la transizione e la richiesta da parte dei Paesi che si stanno avviando sulla via dello sviluppo di applicare il principio della just transition, cioè di tenere conto delle differenti situazioni di partenza. Prossimo appuntamento in data da destinarsi.

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