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Il futuro post-industriale, dopo gli scaldabagni

Ariston
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Nel sito industriale Radi di Rovereto si producevano scaldabagni dal 1926. Dopo la dismissione della fabbrica il sito è pronto per la sua nuova vita.

Per la fabbrica Radi di Rovereto sono stati 90 anni di lavoro e innovazione. Quasi un secolo a produrre scaldabagni esportati in tutto il mondo, fino alla dismissione della produzione, nel 2016. Oggi il futuro del sito è nel terziario.
Quella della Radi è una storia lunga, iniziata nel 1926 con l’imprenditore cuneese Serafino Radi, che puntò sulla produzione di scaldabagni, con una parentesi nella produzione di motori per sommergibili, durante la Seconda guerra mondiale. Fu un successo, non solo economico: Radi fu la prima azienda italiana a ridurre l’orario di lavoro da 48 a 45 ore.
L’acquisizione da parte della multinazionale americana Rheem alla fine degli anni Sessanta fu il salto internazionale e l’impiego per oltre 400 operai nei dieci anni successivi. Poi il ritorno in mani italiane con il gruppo Merloni, diventato Ariston, ha accompagnato il declino della produzione e l’addio allo scaldabagno, che non ha incontrato più il favore delle famiglie. Nel 2016 è calato il sipario sull’azienda fondata 90 anni prima.

Una nuova occasione di sviluppo

La struttura industriale della ex Radi è rimasta un corpo estraneo e fatiscente nel contesto urbano di Rovereto, una fabbrica fantasma in un’area di oltre 20mila metri quadri che occupa una posizione strategica nel tessuto urbano, vicina sia alla stazione dei treni che al centro storico. Ariston Thermo Group, in seguito ad un accordo con Trentino Sviluppo, società della Provincia autonoma di Trento che è diventata proprietaria dell’area, ha finanziato interamente la bonifica del sito, per un importo di 690mila euro.
La bonifica è stata preceduta dalla demolizione dei due grandi capannoni della produzione, ad esclusione di due campate di 12 metri dell’edificio “San Pietro” e della palazzina uffici, raro esempio in città di architettura razionalista e dunque vincolate dalla Soprintendenza. Per minimizzare la dispersione delle polveri e l’inalazione di silice è stata utilizzata la tecnica della bagnatura delle strutture che ha portato a rimuovere una quindicina di cisterne di gasoli e olii pesanti oltre che i terreni, contaminati soprattutto da idrocarburi e metalli.
Ora la vecchia Radi, abbandonati gli scaldabagni, è pronta a tornare parte del tessuto economico cittadino ospitando nuove sedi universitarie e spazi per i servizi pubblici. Queste, al momento, le ipotesi. Certo è che tornerà ad essere un elemento di sviluppo della città.

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Redazione

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