Mancanza di servizi adeguati per le imprese e di sistemi di innovazione locale costituiscono le maggiori fragilità del sistema economico abruzzese. Che per il futuro potrebbe puntare sulla valorizzazione delle risorse naturali, la rigenerazione del territorio e l’industria sostenibile per uscire dalla “trappola dello sviluppo”.
Il caso dell’Abruzzo può essere rappresentato come un esempio significativo di una regione europea che è riuscita a ridurre il suo ampio divario di PIL pro capite rispetto alla media nazionale, senza però completare il recupero, poiché è stata catturata in una “trappola dello sviluppo“.
Il miracolo abruzzese si realizzò tra gli anni ’60 e i primi anni ’90, spinto dalle politiche di sviluppo regionale nazionali ed europee e dalla posizione geografica relativamente favorevole della regione. Tra il 1960 e il 1992 il PIL pro-capite abruzzese salì dal 66 al 92% della media nazionale, staccandosi nettamente dal resto del Mezzogiorno, grazie soprattutto all’aumento della produttività del lavoro conseguente alla trasformazione della struttura economica. La Regione si era progressivamente specializzata nell’industria manifatturiera grazie soprattutto a importanti investimenti esterni, ma anche a un secondo motore di crescita rappresentato dallo sviluppo di alcuni sistemi produttivi locali collegati ai beni di consumo tradizionali. Tuttavia, dopo che la regione ebbe superato, nel 1997, la soglia di ammissibilità per l’Obiettivo 1 dei Fondi strutturali dell’Unione Europea, il graduale venir meno del sostegno pubblico mise in luce la fragilità della sua struttura imprenditoriale rispetto alla pressione competitiva derivante dalla crescente integrazione internazionale, sia in termini di quote di mercato che di capacità di attrarre investimenti esteri. Il sistema economico abruzzese non è dunque riuscito a tenere il passo con le altre regioni in termini di input e output di innovazione, a causa delle sue debolezze strutturali e dei limiti delle politiche e delle istituzioni pubbliche.
Il processo di sviluppo è rimasto intrappolato da questo insieme di fattori esogeni e il PIL pro-capite, messo a rapporto con la media nazionale, è diminuito, raggiungendo un minimo dell’82% nel 2004. In seguito, la tendenza si è temporaneamente invertita, poiché l’economia regionale, nonostante i problemi creati dal terremoto del 2009, si è dimostrata più resistente alla crisi globale rispetto al resto d’Italia, soprattutto in termini di tasso di occupazione; la vitalità dell’industria manifatturiera ha spinto il PIL pro-capite fino all’88% della media nazionale nel 2012. Tuttavia, la convergenza si è nuovamente interrotta negli anni successivi.
Il declino relativo dell’Abruzzo è stato ancora più profondo e prolungato rispetto alla media dell’UE-28 (da circa il 111% nel 1992 al 77% nel 2017), a conferma che altre regioni europee sono emerse in modo molto dinamico negli ultimi due decenni.
Quali sono le fragilità e i punti di forza dell’economia abruzzese
Il problema principale della struttura economica abruzzese è forse il fatto che intorno all’industria manifatturiera manca un sistema adeguato di servizi alle imprese, anche a causa delle limitate dimensioni dei centri urbani della regione. Mentre nel resto d’Italia il processo di terziarizzazione si è manifestato in un aumento significativo delle quote di valore aggiunto e di occupazione riconducibili ai servizi finanziari e non finanziari alle imprese, in Abruzzo la crescita del settore terziario avanzato è stata più modesta. Non si sono quindi sviluppati sistemi locali di innovazione, basati su strette interazioni tra manifattura e servizi, che in altre parti d’Italia a più alta densità urbana hanno favorito la diffusione delle conoscenze nel tessuto imprenditoriale.
L’importanza di questo divario non va però sopravvalutata: in Abruzzo si manifesta in misura più intensa un problema che riguarda l’intera economia italiana, la cui crescita è frenata, tra l’altro, proprio dalla debolezza del terziario, dove si concentra la maggior parte delle piccole imprese meno produttive e innovative, poco esposte alla concorrenza internazionale. Nell’industria manifatturiera, invece, i processi di selezione competitiva innescati dalla globalizzazione e dalle crisi dell’ultimo quindicennio hanno fatto emergere un nucleo dinamico di imprese capaci di tenere il passo richiesto dall’andamento dei mercati. Anche in Abruzzo, come già sottolineato, l’industria manifatturiera ha sostenuto la crescita dell’economia regionale. Il contributo principale, soprattutto in termini di esportazioni, è stato arrecato dalla filiera degli autoveicoli, nella quale le grandi imprese a controllo esterno insediate da molto tempo nel polo di Atessa hanno favorito lo sviluppo di un sistema di fornitori locali dinamico e innovativo. Tuttavia, la forza della manifattura abruzzese si manifesta anche in altri settori, mostrando un grado di diversificazione relativamente elevato, malgrado le modeste dimensioni complessive dell’economia regionale.
L’Abruzzo può diventare la regione dell’industria sostenibile
È proprio questa vitalità dell’industria manifatturiera che, combinata con la grande ricchezza del patrimonio naturale dell’Abruzzo (la cosiddetta “regione verde d’Europa”), ha suggerito l’idea che ispira la cosiddetta Carta di Pescara: fare dell’Abruzzo la regione dell’industria sostenibile, organizzando intorno a questa visione la strategia di specializzazione regionale concepita per attuare le politiche di coesione europee. Le prospettive future e la possibilità che la regione riesca a sottrarsi alla “trappola dello sviluppo” in cui è scivolata e a riprendere un percorso di convergenza virtuosa dipendono in misura notevole dalla capacità di tutti i soggetti locali di valorizzare efficacemente le risorse esistenti, rispettando i vincoli della sostenibilità ambientale e sociale della crescita economica. Le grandi sfide poste dal cambiamento climatico accentuano l’importanza e l’urgenza della questione, soprattutto per la filiera degli autoveicoli, rendendo evidente che anche la competitività delle imprese è ormai strettamente condizionata dalle scelte politiche che si faranno, e in particolare dalla capacità di investire tempestivamente nelle nuove tecnologie richieste per superare le sfide. Non si tratta di contrapporre schematicamente la dinamica della produzione e dell’occupazione al rispetto degli obiettivi della transizione energetica, come se ci fosse una relazione dilemmatica rigida, in cui una dimensione va necessariamente a scapito dell’altra. Si tratta di individuare strategie di rigenerazione industriale dei territori, che consentano di costruire in concreto un modello di sviluppo diverso da quello del passato, creando nuove opportunità di lavoro senza aumentare ulteriormente il consumo di suolo e contribuendo a realizzare l’agenda di sviluppo sostenibile della comunità internazionale.