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La sfida climatica: un’opportunità molto concreta di cambiamento

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La crisi climatica esaspera le differenze economiche e sociali già esistenti, tra i Paesi e al loro interno. Le politiche per contrastarla vanno dunque inquadrate in una prospettiva di giustizia sociale e ambientale. E rendono necessaria una risposta globale.

L’evidenza scientifica sul cambiamento climatico e le sue cause è ormai abbondante e difficile da contestare. Anche per coloro che, malgrado ciò, ancora mettono in dubbio il carattere antropogenico del fenomeno, si pone la questione di come affrontarlo o almeno di come cercare di mitigare i grandi problemi ambientali e sociali che ne derivano. La sfida riguarda il pianeta e dunque l’intera comunità internazionale. Si tratta di un altro esempio, dopo la tragica lezione della pandemia Covid-19, della necessità di collocare la risposta politica a un livello istituzionale adeguato alla scala dei problemi da risolvere. La ricerca di soluzioni nazionali per le grandi questioni globali è illusoria e, spesso, nasconde il tentativo propagandistico di scaricare sul resto del mondo responsabilità politiche che sono invece interne a ciascun Paese. Quando, come in questo caso, la sfida ha dimensioni che travalicano i confini nazionali, non ha senso agitare il timore di perdere sovranità, cedendola a istituzioni sovranazionali. Anzi, l’unico modo per esercitare effettivamente la sovranità popolare è in questi casi quello di condividerla con altri Paesi, creando o rafforzando istituzioni e politiche comuni.

Cambiamento climatico: un problema di equità internazionale

Le cause e le conseguenze del cambiamento climatico non sono distribuite uniformemente tra i diversi Paesi. Storicamente, la produzione di emissioni climalteranti è stata soprattutto a carico dei Paesi più sviluppati, anche se negli ultimi decenni il contributo di quelli emergenti è andato aumentando con la loro importanza economica. I problemi che ne derivano colpiscono tutto il pianeta, ma si manifestano in maniera più grave nei Paesi più poveri, che ne sono responsabili in misura modesta. Si pone dunque un problema evidente di equità internazionale, che chiama in causa sia i meccanismi di finanziamento delle politiche necessarie per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico, sia, più in generale, il ruolo della cooperazione internazionale allo sviluppo sostenibile.

In questa prospettiva vanno inquadrate criticamente anche le tendenze politiche recenti volte alla frammentazione del sistema commerciale multilaterale e all’accorciamento delle reti produttive internazionali, in nome di una malintesa autonomia strategica dalle importazioni. Lasciando da parte i pochi casi specifici nei quali ragioni di sicurezza nazionale giustifichino effettivamente politiche volte a costituire capacità produttive interne ai singoli Paesi, eventualmente con programmi adeguati di investimento pubblico, l’ambizione di ridurre le cosiddette “dipendenze critiche” spesso nasconde il rischio di chiusure protezionistiche nei confronti dei Paesi in via di sviluppo. Si tratterebbe di una scelta particolarmente nociva, in una fase storica in cui malintesi interessi nazionali non dovrebbero essere anteposti alla necessità assoluta di costruire politiche comuni per affrontare la sfida climatica, assicurando un’equa ripartizione degli oneri che ne derivano.

Crescita economica e salvaguardia del pianeta sono in contrasto?

La Giornata internazionale per la riduzione del rischio di disastri, proclamata dalle Nazioni Unite il 13 ottobre, è stata dedicata nel 2023 ai rapporti tra disastri e disuguaglianze. Si tratta di un circolo vizioso: da un lato, i Paesi e le persone più povere sono più vulnerabili ai disastri naturali e antropogenici, come quelli provocati dal cambiamento climatico, dall’altro, tali catastrofi tendono ad aggravare ulteriormente le forti disuguaglianze economiche e sociali già esistenti, fra i Paesi e al loro interno. Ne consegue che le politiche volte a migliorare la resilienza ai disastri vanno coniugate con quelle volte a ridurre le disuguaglianze, in una prospettiva di giustizia sociale e ambientale intergenerazionale e internazionale.

All’interno di ciascun Paese si pongono infatti questioni analoghe a quelle aperte nei rapporti internazionali. Gli oneri derivanti dalle politiche per la transizione climatica si distribuiscono in modo non equilibrato tra le persone, le imprese e i territori, generando tensioni sociali che si fanno sempre più evidenti. Tuttavia, anche in questo caso, la questione va posta in termini diversi da quelli proposti dalle forze interessate a frenare il processo di trasformazione dei modelli di sviluppo, necessario per affrontare la sfida climatica. Troppo spesso si diffonde acriticamente l’idea semplicistica che esista un dilemma insolubile tra crescita economica e salvaguardia del pianeta. In altri termini, si ritiene che per affrontare efficacemente la sfida climatica occorra necessariamente frenare o invertire la crescita economica, accettando di conseguenza maggiore disoccupazione e/o salari più bassi. Si può invece ragionevolmente argomentare che sia vero il contrario, cioè che sia possibile – e dunque doveroso – puntare a ottenere simultaneamente una riduzione significativa delle emissioni climalteranti e un aumento dell’occupazione e dei salari. È necessario però affrontare sul serio, e senza ulteriori dilazioni, la sfida posta dal cambiamento climatico, che consiste nella necessità di cambiare radicalmente il modello di sviluppo che ha caratterizzato le economie capitalistiche a partire dalla rivoluzione industriale. Messa in questi termini, la questione può apparire un’ambizione velleitaria, mentre si tratta in realtà di un’opportunità molto concreta e, peraltro, priva di alternative convincenti.

La sfida climatica si combatte a livello globale e sul territorio

Sono ormai numerose le esperienze di innovazione tecnologica e sociale che stanno mostrando concretamente la praticabilità di soluzioni basate sul fotovoltaico e sui veicoli elettrici. Come ci hanno ricordato recentemente Sabel e Victor nel loro libro “Fixing the Climate” (Princeton University Press, 2022), queste esperienze locali di successo sono il risultato di processi di sperimentazione collaborativa tra attori pubblici e privati, che condividono una buona conoscenza concreta dei problemi da affrontare, nei sistemi territoriali in cui operano. Lo stesso approccio sperimentalista spiega il successo ottenuto nell’attuazione del Protocollo internazionale di Montreal sull’ozono del 1987. In questa vicenda si vede bene il legame profondo che occorre costruire tra il livello delle istituzioni globali, l’unico nel quale abbia senso e sia necessario cercare di fissare regole valide per tutti, e il livello locale, quello delle politiche basate sui territori, in cui quelle regole possono trovare attuazione concreta. L’approccio giusto, dunque, funziona dall’alto verso il basso, nella fissazione delle regole del gioco da parte di istituzioni internazionali democraticamente legittimate, e dal basso verso l’alto, nella sperimentazione di soluzioni locali per l’attuazione di tali regole. La partecipazione dei soggetti coinvolti è una condizione fondamentale per assicurare il successo delle soluzioni sperimentate, in un contesto che garantisca un’equa ripartizione dei loro costi e benefici.

Il ruolo delle politiche nazionali nel contrasto al cambiamento climatico

Che cosa resta, in questo quadro, alle politiche nazionali? Una volta definita la cornice degli accordi internazionali, che attualmente si basa sul Protocollo di Kyoto, entrato in vigore nel 2005, e per l’Italia anche sul Protocollo europeo sul cambiamento del clima, ratificato nel 2002, il compito principale delle autorità politiche nazionali è quello di definire le riforme delle regole e degli incentivi che occorrono per dare attuazione agli impegni assunti nei trattati internazionali. Inoltre, vanno realizzati rilevanti investimenti nelle infrastrutture che facilitino le innovazioni necessarie per la transizione climatica e un contributo importante può essere arrecato dalle imprese a controllo pubblico, a cui vanno assegnate missioni specifiche in questo ambito. Soltanto in questo modo si può creare un sistema di incentivi e una cornice di aspettative di lungo periodo, utile a orientare anche gli investimenti privati nella direzione desiderata. Ed è questo il quadro in cui le iniziative locali di sperimentazione delle soluzioni tecniche necessarie possono avere maggiori possibilità di successo, coniugando concretamente la risposta alla sfida climatica con la trasformazione del modello di sviluppo economico.

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