Si sta iniziando a parlare sempre più spesso, anche tra i non addetti ai lavori, del concetto di microplastica, un fattore di rischio per la salute non solo umana ma anche per quella di piante e animali che condividono con noi il pianeta Terra. Sono tuttora in corso delle importanti ricerche che stanno cercando di identificare non soltanto il concreto impatto che le microplastiche hanno sul nostro organismo, ma anche le modalità per la misurazione della loro concentrazione. E in entrambi i casi molte domande restano ancora senza una risposta puntuale e realmente soddisfacente. Scopriamo dunque insieme quali metodi di rilevazione delle microplastiche abbiamo a disposizione ad oggi
Indice contenuti
- Cosa sono le microplastiche
- Gli effetti delle microplastiche
- La sfida delle microplastiche
- Quali metodi di rilevazione delle microplastiche esistono?
Cosa sono le microplastiche
Non c’è dubbio che l’uso della plastica, particolarmente diffuso dal secondo dopoguerra, sia stato molto diffuso e che ci abbia aiutato a risolvere tanti piccoli e grandi problemi quotidiani. Il problema è che il suo utilizzo sconsiderato, così come il suo smaltimento scorretto, ha portato all’accumulo di enormi quantità di plastica nell’ambiente, e negli oceani in modo particolare. Forse non tutti sono a conoscenza del fatto, per esempio, che nei nostri mari sono presenti diverse enormi isole di rifiuti di plastica, in grado di rilasciare con il passare del tempo quelle che per l’appunto chiamiamo microplastiche.
Stiamo dunque parlando dei principali prodotti di degradazione di prodotti come bicchieri, piatti, sacchetti, cannucce etc: questo processo genera particelle di plastica di dimensioni inferiori a 5 mm.
Gli effetti delle microplastiche
Questi materiali di dimensioni microscopiche possono essere inalati dagli esseri umani e dagli animali tramite l’aria che respirano, l’acqua che bevono e gli alimenti che consumano. Le particelle di microplastica con dimensioni inferiori a 10 μm (vale in questo la pena citare anche le nanoplastiche, che sono ancor più piccole e misurano meno di 1 μm) possono essere inalate e raggiungere i polmoni. L’acqua potabile, consumata ogni giorno in grandi quantità, rappresenta un ulteriore percorso diretto per l’ingestione di microplastiche nel corpo umano. Sono a proposito già state identificate dagli esperti delle tracce di microplastiche in diversi alimenti, come sale, zucchero, birra, miele, uova e Il World Wide Fund for Nature, tra l’altro, ha stimato che oggi una persona potrebbe potenzialmente ingerire circa 5 grammi di microplastiche alla settimana.
Le quantità sopracitate poi possono essere ritrovate, come già accaduto in passato, in vari campioni biologici umani, inclusi la saliva, l’espettorato, i polmoni, il fegato, il latte materno e le feci. Queste particelle, insieme ai polimeri più piccoli, possono essere trasportate in tutto il corpo attraverso il flusso sanguigno e attraversare la barriera ematoencefalica, causando eventualmente anche danni ossidativi e stress immunitario, con conseguenti seri rischi per la salute.
La sfida delle microplastiche
È importante ricordare che per quanto riguarda le microplastiche e la loro concentrazione nell’ambiente ci si sta ancora muovendo un po’ a rilento. Negli ultimi anni sono state svolte numerose ricerche sui metodi per il rilevamento, l’identificazione e la quantificazione delle microplastiche. Tuttavia, non c’è dubbio che esistano ancora oggi delle difficoltà analitiche oggettive delle quali forse si sta parlando poco.
Va comunque ricordato che sono attualmente disponibili alcune nuove tecniche promettenti che potrebbero migliorare la precisione delle rilevazioni, ma sono stati riportati ad oggi solo pochi studi sui metodi di ridimensionamento in grado di correggere le eventuali incompatibilità nei dati causate dai diversi tipi di particelle di microplastica.
Quali metodi di rilevazione delle microplastiche esistono?
A questo punto potrebbe sorgere spontanea una domanda: “ma quindi come faccio a capire quante microplastiche ho ingerito oggi, o questa settimana?”.
Sappiamo per certo che la risposta a questa domanda non è “zero”. Al contempo, rispondere in maniera molto precisa, come già anticipato, è complesso.
In linea generale, sono stati sviluppati finora due metodi per il rilevamento di queste sostanze: da un lato troviamo la valutazione gravimetrica (che è basata sul peso), dall’altro la conta al microscopio. La scelta tra i due metodi dipende dalla quantità di rilascio del campione: se è abbondante, si preferisce la misurazione del peso delle fibre, poiché la presenza di contaminanti non vi incide significativamente; in caso contrario, si opta per la conta e l’analisi al microscopio, che richiede al contrario tempi di prova più lunghi. Il dibattito sul tema oggi si sta focalizzando anche su quale metodo di test sia più adatto. Per quanto riguarda nello specifico la loro concentrazione nelle acque, inoltre, le principali tecniche di analisi riconosciute anche in seno alla Commissione Europea si dividono in due categorie principali:
- Metodi di analisi termica: che identificano i polimeri in un campione e misurano la quantità totale di ciascun tipo di polimero, confrontando i prodotti di decomposizione con una libreria di spettri. Tuttavia, non forniscono informazioni sul numero, la dimensione o la forma delle particelle. La sensibilità dipende dalla quantità minima di massa rilevabile;
- Metodi di microscopia infrarossa (IR) o Raman: possono identificare il tipo di polimero presente nelle singole particelle e fornire informazioni sulla loro dimensione e forma. Per riconoscere i polimeri, si confrontano gli spettri delle particelle con una libreria di polimeri noti. La dimensione minima delle particelle che può essere identificata dipende dal metodo e dagli strumenti utilizzati.