Gli scarti alimentari potrebbero dare avvio a una vera e propria rivoluzione nel settore tessile.
L’Italia è nota per essere la culla della moda e del design. Dall’alto della sua prominenza, sta nuovamente dimostrando di poter essere leader mondiale nell’innovazione tessile. Non si tratta più solo di lavorare filati pregiati, come la seta o il cashmere, bensì una nuova generazione di materiali di lusso, provenienti letteralmente dalla spazzatura: gli scarti alimentari. Dalla discarica si possono ottenere fibre performanti e lussuose. Un processo di upcycling come questo non è semplice marketing. Si tratta di una strategia circolare che riduce drasticamente i rifiuti, diminuisce la dipendenza da risorse vergini e valorizza le filiere locali.
Come nella tipica tradizione del made in Italy di successo, anche in questo caso si uniscono eccellenza scientifica e tradizione manifatturiera. È all’interno di questa ottica che nascono aziende siciliane capaci di creare un filato setoso a partire dal pastazzo degli agrumi. O magari startup del Nord Italia che producono un’alternativa alla pelle di altissima qualità lavorando le vinacce del vino. Questi biotessuti non sono solo sostenibili, ma anche tecnologicamente avanzati. Si tratta infatti di fibre performanti, anallergiche e, spesso, completamente biodegradabili.
La loro validità commerciale è già stata ampiamente dimostrata: grandi brand della moda, da Salvatore Ferragamo a colossi come H&M, tristemente noti per il fast fashion, hanno utilizzato e utilizzano questi materiali nelle loro collezioni.
La filiera circolare: come uno scarto diventa tessuto di lusso
Siamo ancora lontani dal poter contare su una moda che possa basarsi esclusivamente, o principalmente, su biotessuti. Per riuscire a farlo, dovremo abbassare considerevolmente il numero di capi che produciamo. È però degno di considerazione il fatto che sempre più realtà si stiano attrezzando per trasformare gli scarti alimentari in materiali di pregio. Una trasformazione di questo tipo è un processo affascinante e complesso, il quale racchiude perfettamente il concetto di bioeconomia circolare.
Il problema: i costi ambientali ed economici dello smaltimento agroindustriale
L’industria agroalimentare è un pilastro dell’economia del nostro Paese. Inevitabilmente, genera tonnellate di residui, ogni anno. Solo la produzione di succo d’arancia in Italia, ad esempio, lascia un residuo polposo che può superare le 700.000 tonnellate annuali. Similmente, la produzione vinicola e casearia produce enormi quantità di vinacce, siero di latte e residui organici similari.
Smaltire questi materiali è un onere significativo. Tanto dal punto di vista economico, che ricade sulle aziende, quanto da quello ambientale. Interrarli in discarica contribuisce all’emissione di gas serra e all’inquinamento del suolo. L’innovazione di cui stiamo scrivendo intercetta questo flusso di scarti alimentari e lo trasforma in risorsa. Si risolve così, a monte, il problema del rifiuto. Come sottolineato dal Rapporto Assobiotec sulla Bioeconomia in Italia, l’uso di biomasse residuali rappresenta una delle più grandi opportunità per la crescita – sostenibile – del Paese.
Il processo di estrazione: dalla cellulosa degli agrumi alle proteine del latte
Il cuore dell’innovazione risiede nel processo di estrazione della materia prima tessile. I risultati conseguiti dalla green chemistry, o chimica verde, la quale mira a utilizzare solventi non tossici e processi a basso consumo energetico, hanno portato allo sviluppo di tecniche efficaci per trasformare alcuni dei rifiuti più promettenti in basi per la tessitura:
- Scarti alimentari di frutta (principalmente agrumi e mele): il componente chiave, qui, è la cellulosa. Spesso in combinazione con la pectina. Nel caso degli agrumi e delle mele, i residui fibrosi vengono essiccati. La cellulosa viene isolata attraverso una dissoluzione e un processo di filatura a umido (simile a quello per il rayon o la viscosa, impiegato da decenni) fino a ottenere una fibra continua.
- Scarti di vino: gli scarti alimentari solidi della vinificazione (ovvero vinacce, bucce e semi) si lavorano al fine di estrarre oli vegetali e sostanze polimeriche. Queste vengono poi formulate con resine vegetali per creare un composto spalmabile che, una volta essiccato, replica resistenza e texture della pelle animale.
- Proteine animali. Le caseine (proteine del latte) si separano dal latte scaduto o non più utilizzabile. Una volta purificate, sono disciolte in una soluzione acquosa e, tramite un processo di estrusione, trasformate in filamento.
Ogni processo chimico è progettato per massimizzare purezza ed efficacia della fibra ottenuta, mantenendo sempre un impatto ambientale minimo.

La filatura: creazione del filo e sua tessitura
Una volta estratta la fibra, o il polimero, si passa alla fase di filatura. Durante questa fase, quanto estratto si trasforma in filato pronto per essere utilizzato dai brand di moda. È possibile sia filare questi prodotti singolarmente, sia mescolarli con altre fibre naturali oppure riciclate, così da aumentarne la resistenza e le proprietà al tatto. Ambedue possono poi essere lavorati su telai industriali, allo scopo di creare tessuti a maglia o a navetta. Il biotessuto mantiene la stessa versatilità dei materiali più convenzionali.
Il rifiuto che imita la pelle si può disporre su un supporto tessile che gli conferisca la necessaria resistenza meccanica e crei un materiale finito visivamente e tattilmente indistinguibile dalla pelle animale. Il risultato sarà un prodotto immediatamente integrabile dagli stilisti, nelle loro catene di approvvigionamento.
6 Eccellenze della bioeconomia made in Italy
Nell’ambito del fashion, il nostro Paese rappresenta davvero una fucina di innovazione. Sono diverse le aziende che hanno raggiunto un buon successo internazionale trasformando gli scarti in oro (tessile). Vediamo le principali.
1. Orange Fiber: la seta dagli agrumi della Sicilia
L’azienda siciliana Orange Fiber è stata una vera pioniera globale. A Catania sono stati i primi a brevettare e commercializzare fibra tessile ricavata dal pastazzo degli agrumi e hanno dato origine a un’intera filiera virtuosa. Il loro processo estrae cellulosa dal rimasuglio della spremitura trasformandolo in un filato che, al tatto, somiglia alla seta: leggero, morbido e con una gradevole finitura luminosa. Il prodotto ha ottenuto un riconoscimento immediato nel lusso. La prima collezione è stata realizzata in collaborazione con Salvatore Ferragamo, il quale ha voluto dare dimostrazione del fatto che il lusso non debba rinunciare alla sostenibilità.
2. Vegea (Wineleather): la pelle dalle vinacce del vino
Fondata nel Nord Italia, Vegea ha rivoluzionato il concetto di ecopelle. Utilizzando gli scarti alimentari dell’industria vinicola, settore centrale per l’economia italiana, ha creato un biomateriale noto come Wineleather. Il prodotto è davvero innovativo e la materia prima necessaria si compone di bucce, semi e raspi d’uva. Robusto e versatile, il Wineleather è stato adottato sia dal settore del fashion sia da un altro ambito di pregio, come il segmento lusso dell’automotive. Bentley lo ha già scelto per gli interni delle sue concept car, attratto dalla resistenza del materiale e dal suo appeal estetico.
3. Pellemela: altra alternativa veg-leather dagli scarti delle mele
Concettualmente attiguo a quello di Vegea è il lavoro di Pellemela. In questo caso, si sfrutta l’abbondante scarto dell’industria del succo di mela, particolarmente diffusa in alcune regioni italiane, come per esempio l’Alto Adige. Il consorzio di aziende impegnate nella produzione di questo materiale estrae un composto fibroso da bucce e torsoli di mela. Questo, miscelato con altri materiali, si utilizza per creare un’alternativa alla pelle con un’alta percentuale di materia vegetale. Le applicazioni spaziano: dal calzaturiero all’arredamento fino agli accessori di moda, offrendo una pelle di origine vegetale di chiara e tracciabile provenienza plant-based.
4. Duedilatte: il filato anallergico dagli scarti alimentari del latte scaduto
Questa eccellenza italiana ha trasformato un problema che presentava una considerevole difficoltà di risoluzione, ovvero il latte non più vendibile, in un’intrigante soluzione tessile. Le caseine estratte dal latte scaduto possono essere trasformate in una fibra eccezionalmente morbida, simile alla seta al tatto, ma dalle proprietà uniche. Il filato Duedilatte è naturalmente anallergico e possiede proprietà antibatteriche e idratanti. Queste lo rendono ideale per diventare abbigliamento intimo e particolarmente indicato in caso di pelli sensibili.
5. Crabyon: la fibra medicale dai gusci dei crostacei
Crabyon si spinge oltre la moda e giunge a toccare la sfera medicale. Si tratta di una fibra derivata dal chitosano, un biopolimero estratto dai gusci dei crostacei. Biodegradabile e naturale, il crabyon presenta anche sorprendenti proprietà bioattive. È infatti capace di favorire cicatrizzazione e azione antibatterica. Non a caso, la fibra è largamente utilizzata nei tessuti a contatto con la pelle, per la cura e la prevenzione.
6. Funghi e Micelio: la nuova frontiera dei biomateriali
Sebbene si tratti di una tecnologia in rapida evoluzione a livello globale, l’Italia vanta già diverse realtà che stanno sperimentando l’uso del micelio come alternativa alla pelle. Il nostro Paese è piuttosto all’avanguardia nella trasformazione della parte vegetativa del fungo in tessuto di pregio. Il micelio si coltiva su più substrati organici – generalmente scarti agricoli – in ambiente controllato. Essi danno origine a una sorta di foglio, spesso e resistente, il quale, una volta essiccato e conciato, replica davvero da vicino le qualità della pelle. Questa tecnologia è probabilmente la frontiera più promettente nella creazione di materiali plant-based, che richiedono zero scarti.
Confronto di sostenibilità: biotessuti vs. tessuti tradizionali
| INDICATORE DI IMPATTO | COTONE CONVENZIONALE | POLIESTERE (DA PET) | ORANGE FIBER (DA SCARTI AGRUMI) | WINELEATHER (DA VINACCE) |
| CONSUMO DI ACQUA PER 1 KG DI MATERIALE | circa 10.000 litri | basso, ma è necessario fare uso di petrolio | bassissimo, si sfrutta l’acqua già contenuta nell’agrume di partenza | bassissimo |
| USO SUOLO | elevatissimo, sono necessarie monoculture e piantagioni | nullo | nullo, con valorizzazione scarti alimentari | nullo, con valorizzazione scarti alimentari |
| EMISSIONI CO2 | medio-alte | alte, di origine fossile | molto basse | molto basse |
| FINE VITA | biodegradabile, a meno che non sia tinto | non biodegradabile e generatore di microplastiche | biodegradabile | parzialmente biodegradabile |
| ORIGINE RISORSA | vergine, agricola | vergine, fossile | rifiuto, circolare | rifiuto, circolare |
Pelle Vegana e Biotessuti: una distinzione fondamentale
È di importanza fondamentale saper distinguere tra la generica pelle vegana e i biotessuti veri e propri. Molte alternative vegan sul mercato sono, in realtà, plastiche derivate dal petrolio. I biotessuti invece, come Wineleather o Pellemela, sono plant-based, dunque effettivamente ecologici, tanto che incorporano un’elevata percentuale di materia vegetale proveniente da scarti alimentari. Questa origine li rende una scelta notevolmente più circolare e a bassissimo impatto ambientale. È sempre raccomandato consultare attentamente l’etichetta e informarsi sulla composizione di ogni tessuto, in modo da poter fare scelte informate.
La normativa consente a un materiale plastico derivato direttamente dal petrolio, come il poliuretano (PU) o il polivinilcloruro (PVC), di raggiungere il mercato con una denominazione ingannevole, come ecopelle o pelle vegana. Di fatto, prodotti di questa provenienza non contengono componenti animali, ma il loro impatto ambientale è notevole. Oltre a non essere biodegradabili, infatti, contengono plastica. L’innovazione italiana nel tessile può riscrivere le regole della produzione industriale, dimostrando che l’unica vera frontiera del lusso è la sostenibilità.




