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Bonifiche di siti contaminati: che prospettive in Italia?  

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La bonifica di un sito contaminato è un processo ad alta complessità, che il sistema procedurale italiano rende lento e farraginoso. Con l’inevitabile disagio delle comunità interessate. Trasparenza, condivisione, innovazione tecnologica e normativa possono aiutare.

La bonifica di un sito contaminato non è mai un processo semplice, nè dal punto di vista tecnico, nè da quello dell’accettazione sociale delle soluzioni proposte. Che, troppo spesso, arrivano dopo anni di disagio vissuto dai cittadini che abitano quei territori martoriati. Quali possono essere i fattori su cui lavorare per contribuire a rendere i procedimenti di bonifica meno farraginosi, più sostenibili e accettabili dalle comunità? Se ne discute da tempo e, da ultimo, in occasione della giornata di lavori “Bonifiche e riqualificazione dei siti contaminati in Italia: quali prospettive” organizzata dal Comitato tecnico scientifico di Ecomondo insieme all’Università La Sapienza di Roma, UNEM e Legambiente, che hanno messo intorno a un tavolo rappresentanti istituzionali, dell’associazionismo legato ai territori, dei proprietari dei siti da bonificare, delle imprese impegnate nelle attività di bonifica e del mondo accademico. Con l’obiettivo di comporre, pezzo dopo pezzo, i punti di vista e le esperienze degli stakeholder coinvolti nei processi di bonifica e rigenerazione. Con l’aiuto di Marco Petrangeli Papini, docente presso il Dipartimento di Chimica della Sapienza di Roma e uno degli organizzatori dell’evento, facciamo il punto sulle conclusioni cui si è giunti e dalle quali muovere per migliorare efficacia e condivisione dei percorsi di bonifica.

La bonifica di un sito inquinato apre nuove opportunità

Le comunità che abitano i territori interessati da eventi di contaminazione non sempre accettano con serenità i processi di bonifica: generalmente emergono diffidenza verso i metodi e le tecnologie proposte e fenomeni di rigetto, come il famigerato effetto Nimby (Not in My Backyard). “La bonifica di un sito inquinato è un tema delicato, che tocca profondamente la sensibilità delle persone coinvolte. Per questo – racconta Petrangeli Papini – la comunicazione è una questione delicata, la trasparenza e la condivisione del precorso sono fondamentali. Oggi abbiamo tutti gli strumenti, sia di conoscenza che tecnologici, per governare questi percorsi di bonifica; per vincere la naturale diffidenza che porta al Nimby è fondamentale perciò essere trasparenti, così come si fa in altri Paesi, ma come spesso non accade in Italia”.

A pagare le bonifiche sono – o dovrebbero essere – i responsabili della contaminazione. Se in passato spesso capitava che questi soggetti cercassero di differire le operazioni di risanamento, oggi, stando a quanto è emerso dal dibattito che si è tenuto a Ecomondo, non è più così. Anzi, “rispetto al passato – aggiunge il professore della Sapienza – chi deve risolvere delle passività ambientali ha tutto l’interesse nel farlo in tempi brevi”. Per i proprietari dei terreni inquinati risolvere in modo rapido i problemi permette di riqualificare le aree e di riportarle a nuovi usi industriali, meno impattanti. Oppure permette di vendere o cambiare destinazione d’uso. “Una disponibilità – aggiunge Petrangeli Papini – che va sfruttata. Mentre prima tutto il processo era visto come una passività, ora lo si vede come un’opportunità: perché si guarda in prospettiva”.

Ma bisogna essere guidati da innovazione e intraprendenza. “Conoscenze e tecnologie progrediscono in questo settore a ritmi accelerati, esponenziali – spiega Petrangeli Papini – Abbiamo a disposizione tanti strumenti innovativi,che però non sono ancora patrimonio condiviso”. L’innovazione galoppa più rapida della capacità di assorbimento delle novità da parte dei portatori di interesse. “Per questo motivo – aggiunge – per far passare proposte più innovative, che non sono ancora mainstream, si deve avere coraggio e mettere sul tavolo ipotesi intraprendenti, proprio perché molto innovative”. Anche in questo caso la capacità di saper spiegare e raccontare le proposte avanzate è determinante.

Bonifiche in Italia: procedure rigide e allegati tecnici vetusti

I tempi di realizzazione del progetto di bonifica, che in molti casi in Italia si allungano senza fine, è entrata di diritto tra gli aspetti centrali nella sostenibilità di una bonifica e della riqualificazione di un territorio. “Le amministrazioni hanno spesso delle responsabilità – dice Petrangeli Papini – ma non c’è un unico responsabile del rallentamento dei processi, c’è invece un problema di natura procedurale. La procedura definita dalla normativa italiana è perfettamente e rigorosamente lineare e il problema è che questa linearità, nel contesto della bonifica, vuol dire spesso rigidità, ingessamento. Durante l’incontro a Ecomondo tutti hanno condiviso questo concetto”.

Il problema, allora, non è tanto la lentezza dell’amministrazione, che pure pesa, ma la rigidità del procedimento. “Quando andiamo a verificare una situazione di contaminazione, magari di lungo periodo, non sappiamo esattamente cosa troveremo, come è distribuito il contaminante, quanto ce n’è. Le attività di caratterizzazione forniscono un quadro iniziale dello stato di contaminazione, sulla base del quale si predispone un progetto di bonifica.  Ma nel corso degli interventi si acquisiscono costantemente nuove informazioni, che vanno ad aggiornare e modificare il quadro di conoscenza di partenza, spesso suggerendo aggiustamenti al percorso ipotizzato. Questo nella pratica vuol dire tornare indietro ogni volta: istituire un tavolo amministrativo, richiedere varianti al progetto e poi ripartire col nuovo quadro di conoscenze. Un procedimento che si scontra con la non linearità delle operazioni di bonifica”.

Altra criticità che Petrangeli Papini evidenzia è rappresentata dalle norme tecniche vetuste: “gli allegati tecnici che, ad esempio, definiscono le procedure di caratterizzazione, quelle dell’analisi di rischio o la predisposizione del progetto bonifica nella gran parte dei casi sono vecchissimi e largamente superati: parliamo di almeno 20 anni”. Un dato che stride fortemente con l’accelerazione innovativa di cui abbiamo parlato. “C’è quindi la necessità assoluta di rivedere quegli allegati. Ma attenzione – avverte il professore – la revisione non deve essere calata dall’alto, ma condivisa con i tecnici e gli operatori”.

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