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TRIREME, la “lavatrice” che bonifica i siti inquinati

Petrangeli Papini
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Una metodologia brevettata e già operativa in un sito industriale italiano, consente di bonificare siti contaminati da solventi clorurati senza produrre flussi di scarto, utilizzando una particolare specie di batteri

Una delle prime cose che viene in mente alla parola “ripulire” è una lavatrice: cosa c’è di più facile, per rimuovere lo sporco, che mettere tutto in lavatrice? È questo, grosso modo, il meccanismo alla base di un sistema di bonifica della falde acquifere contaminate brevettato dall’Università La Sapienza di Roma (tra gli inventori Marco Petrangeli Papini e Mauro Majone, docenti del Dipartimento di Chimica), insieme a Sersys Ambiente e alla tedesca IEG Technologie GmbH, attiva nel settore delle bonifiche ambientali. Dal brevetto, legato a un progetto di ricerca finanziato dal Miur e depositato nel 2017, è nata TRIREME. Un nome che richiama quello delle navi da guerra dell’antica Grecia, ma che è in realtà l’acronimo di “Technologies for Reliable and Innovative REMEdiation”, la denominazione scelta per questa giovane impresa, frutto della collaborazione tra Dipartimento di Chimica dell’Università La Sapienza di Roma, Istituto di Ricerca sulle acque del CNR e Sersys Ambiente.

Il know how

Ma come funzionano queste tecnologie per una bonifica affidabile e innovativa? Una delle tecniche impiegate per bonificare i siti in cui sono presenti solventi clorurati, nitrati e solfati prevede l’utilizzo di pozzi che estraggono dal sottosuolo l’acqua contaminata, la “ripuliscono” attraverso un reattore a ferro zerovalente, ne modificano le caratteristiche per stimolare l’attività biologica del sito e la reimmettono nell’acquifero invece di scaricarla altrove, come tipicamente avviene. “Le sostanze cancerogene clorurate – spiega Petrangeli Papini – posso essere vantaggiosamente trasformate in etilene, un composto non tossico, attraverso un processo di degradazione che avviene ad opera di microorganismi naturalmente presenti nell’ambiente contaminato e che si selezionano proprio per sopravvivere in presenza dei contaminanti. Una pratica abbastanza consolidata e diffusa nel mondo delle bonifiche e che, generalmente, avviene aggiungendo nel sottosuolo quegli elementi in grado di sostenere e accelerare questa attività biologica”. Arriviamo allora alla cifra di TRIREME, il marchio di fabbrica di questa start-up innovativa. “La caratteristica distintiva della tecnica che utilizziamo – aggiunge Petrangeli Papini – è la quasi completa eliminazione di flussi di rifiuti in uscita, da dover gestire dopo il trattamento, e la totale conservazione della risorsa idrica”. Una volta prelevata e fatta passare nell’impianto, dove entra in contatto con un polimero solido biodegradabile (il PHB, poli-beta-idrossibutirrato) che genera in continuo gli elementi necessari alla stimolazione della degradazione biologica, l’acqua ritorna nella falda privata dei contaminanti.

Dehalococcoides

Il poli-beta-idrossibutirrato può essere prodotto anche da scarti agroalimentari o dalla frazione organica dei rifiuti urbani. “I microrganismi che vivono nei rifiuti organici, trattati in un certo modo, stoccano carbonio ed energia all’interno della cellula sotto forma di questo polimero – racconta Petrangeli Papini – gli servirà quando non avranno da mangiare”. Insomma, il PHB è, per questi batteri, ciò che per noi è il grasso corporeo. “Noi sfruttiamo la naturale biodegradabilità di questo polimero: quando l’acqua di falda ci passa attraverso, il polimero degrada, fermenta e produce delle sostanze, in particolare idrogeno molecolare, che vengono trasferite continuamente nella falda”. L’idrogeno molecolare stimola l’attività biologica nei siti contaminati dai solventi clorurati. Per il risanamento di questi terreni, si utilizzano di solito colonie di microrganismi del genere Dehalococcoides, che si alimentano degli inquinanti e, nella digestione, li trasformano in sostanze non tossiche. “Il Dehalococcoides è l’unica specie di microrganismi in grado di compiere sui solventi clorurati il percorso completo di degradazione, fino alla conversione nel non tossico etilene” dice Petrangeli Papini. L’idrogeno molecolare rafforza presenza e attività delle colonie e porta l’attività dei microrganismi a velocità sufficiente per raggiugere gli obiettivi di bonifica. Mette cioè i microrganismi nelle condizioni migliori per lavorare. Bruna Matturro e Simona Rossetti, ricercatrici dell’Istituto di Ricerca sulle acque del CNR, lavorano da anni sull’identificazione e la caratterizzazione delle popolazioni microbiche che si adattano ai diversi tipi di contaminanti. “Sono gli altri due soci fondatori di TRIREME: grazie al loro contributo e a quello delle aziende partner abbiamo dato vita ad un processo industriale pienamente sostenibile” sintetizza Petrangeli Papini.

Il mercato potenziale di TRIREME

Il mercato che si apre davanti alla start-up è costituito, solo in Italia, dai 42 Siti di Interesse Nazionale (SIN) e dalle migliaia di Siti di Interesse Regionale (SIR) e locale che richiedono interventi di bonifica. “Mentre per la caratterizzazione dei SIN, mediamente, le attività sono state completate dal 60% al 100%, per i processi di bonifica abbiamo percentuali molto più basse, dallo zero al 10%. C’è un collo di bottiglia rappresentato dalla capacità di trasferire sul campo le conoscenze e portare a compimento la risoluzione della contaminazione. Su questo vogliamo dare il nostro contributo, anche per svecchiare l’approccio conservativo diffuso in Italia in tema di scelte tecnologiche”, racconta ancora Petrangeli Papini. In uno di queste migliaia di siti, il metodo TRIREME è già in campo con un procedimento di messa in sicurezza operativa realizzata in collaborazione con Sersys. Si tratta di un sito industriale del nord Italia, attivo e fortemente contaminato da solventi clorurati, dove dal 2015 è stato avviato un test pilota. “Con ottimi risultati – spiega Petrangeli Papini – basti pensare che con solo tre pozzi a ricircolazione forniti da IEG Technologie GmbH e senza produrre flussi di rifiuti esterni, stiamo riuscendo a rimuovere quantità di sostanze tossiche equivalenti a quelle che venivano trattate con una quarantina di classici pozzi di emungimento”.

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